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March 29, 2024

Può qualcosa o qualcuno sconfiggere la morte?

Fernando Lozada

Tra le certezze più assolute con cui ha a che fare l’essere umano c’è quella della morte, il punto finale alla sua vita, alla sua storia. Ricordo che ai primi ritiri spirituali a cui ho assistito, quando ero poco più di un quindicenne cercando di capire chi fossi e cosa fare della mia vita, uno degli organizzatori ci disse senza mezzi termini che l’unica certezza con cui veniamo alla vita è quella che un giorno moriremo. Potete immaginare la reazione di un gruppo di appena adolescenti, che nel bene o nel male, l’ultima cosa a cui vogliono pensare è la fine della loro vita, quella vita con cui fanno a pugni e che allo stesso tempo amano follemente. 

Con la morte tutti avremo a che fare, con la morte tutti abbiamo a che fare. E nella vita quotidiana di Wecare questo evento misterioso dell’esistenza umana si è reso tangibile a cavallo dei mesi di gennaio e di febbraio. Giorgio era un uomo alto e robusto, molto grosso, arrivato dalla Romania più di venti anni fa. Lo abbiamo conosciuto 4 anni fa quando, andando per via della Conciliazione con della frutta, delle merendine e qualche trancio di pizza, ci si avvicinava timidamente per prendere la sua parte. Giorgio era sempre sorridente e negli anni aveva fatto grandi progressi. Lo avevamo conosciuto un po’ “ubriacone”, mi azzarderei a dire non tanto per vizio ma per il freddo, perché l’alcool non solo riscalda, ma fa perdere anche il senso del freddo e della fame, e questo lo sa bene chi vive, ma soprattutto chi dorme, per strada. Aveva avuto un malore due anni fa e i medici gli avevano vietato il consumo di alcool e le sigarette. Giorgio era riuscito a rinunciare all’alcool, almeno per quanto ci diceva e per come lo vedevamo, ripulito, tanto ripulito, ma non alle sigarette. E poi una volta al mese, puntualmente, si avvicinava a noi per chiedere una ricarica di 5 euro, ricarica che gli permetteva di portare avanti il suo piano telefonico per poter comunicare con suo fratello in Romania, fratello che però non sapeva che ormai da anni suo fratello piccolo Giorgio non faceva più l'operaio, ma stava per strada. Da quando abbiamo aperto il centro diurno, il Wecare Hub, in zona Cipro a Roma, Giorgio è stato sempre presente. Era il primo ad arrivare per farsi la doccia, mettere a posto qualche povero vestito, e mangiare insieme agli altri nostri ospiti, che a volte sono 15 altre 20, altre magari anche 30, e nella grande maggioranza uomini al di sopra dei 50 anni, italiani e stranieri. Una mattina di gennaio mentre entravo nel Wecare Hub me l’ho ritrovato pronto ad accendersi la prima sigaretta della giornata, momento in cui ci davamo sempre il pugno, “Fernando Fernando”, mi diceva, “Giorgio bene, Giorgio felice”, ed era impossibile che non ti strappasse un sorriso. Nonostante tutti questi anni in Italia il suo italiano era ancora un po 'così, “maccheronico”: parlava di se stesso in terza persona. Dopo averlo salutato, e come di abitudine, brutta o bella non lo so, averlo “sgridato” per il fumo in mano, proseguii verso la postazione di lavoro che noi del Team di Wecare abbiamo all’interno del Hub. Non era passato neanche un minuto che, Giovanni, uno dei nostri ospiti, ci chiamò allarmato perché il nostro Giorgio era per terra senza respiro. Non vi sto a raccontare le ore successive, tra la chiamata al pronto soccorso, i lunghi 20 minuti di attesa dell’ambulanza senza sapere bene come comportarci, lo spavento e il dolore dipinto sui volti di quelli che, come lui, stavano per strada e che in questo primo anno di vita dell’ Hub erano diventati i suoi amici, i suoi fratelli, la sua famiglia. La mattinata si era riempita dal pianto e dalle lacrime di uomini feriti dal fatto che Giorgio non ci fosse più, ma che avevano la certezza, o quanto meno la speranza, che Giorgio quella notte non avrebbe più sofferto il freddo, ma sarebbe stato in un “posto” caldo e accogliente, un po’ come lo era diventato l’Hub durante le sue giornate.

Giorgio (davanti) e Luigi mentre passano del tempo al Wecare Hub

Giorgio aveva un grande amico, Luigi. Stavano sempre insieme. Le loro tende si trovavano a distanza di pochi metri, davanti alla chiesa di Santa Maria in Traspontina, su via della Conciliazione. Tra tutte le persone che frequentano l’Hub, che ormai consideriamo un po’ come una famiglia, Luigi era quello più sereno, pur essendo quello che aveva più motivi per essere spezzato da questo lutto. Luigi era un uomo riflessivo, e anche lui da quando è aperto l’Hub, insieme al suo amico Giorgio, era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene dopo aver mangiato e fatto “siesta” su uno dei divani che ormai portava il suo nome. Luigi aveva la sua famiglia a Ischia, ma come per Giorgio e molti altri che vivono per strada, nessuno sapeva delle sue condizioni. Luigi si distingueva per la sua generosità e gentilezza. Ogni lunedì e martedì sera ci aspettava fuori dalla sua tenda con la speranza di ottenere un pezzo di pizza, e ne prendeva sempre il doppio per portarne uno anche a una signora che, anche lei per strada, per timore, preferiva non avvicinarsi al gruppo di persone alla ricerca di cibo. E guai a noi se un giorno uno dei volontari non si accorgeva della sua presenza, Luigi se la prendeva con noi e “ce la faceva pagare”, perché va detto che Luigi era anche un po’ permaloso. Credo che quando si vive per strada, ci si aggrappa con forza a qualsiasi forma di affetto e di riconoscimento possibile. E quando questi vengono a mancare, ci si sente traditi. A volte questo affetto prende forma di un pezzo di pizza, di un saluto, di una stretta di mano, e perché no di un abbraccio… ma soprattutto di una chiacchiera. Luigi era un chiacchierone, amava parlare, e ci si trascorreva ben volentieri del tempo con lui. Solo tre settimane dopo che Giorgio era stato colpito da un malore, Luigi smise di venire all’Hub. Era in ospedale, in attesa di un'operazione al cuore. Ci aggiornava quotidianamente Gianni, o Mauro, altri due membri della famiglia dell’Hub, perché nel tempo è proprio diventato questo, una famiglia, e ci aggiornavano non tanto perché lo sentissero al telefono ma perché andavano a trovarlo di persona, come quando si va a trovare un amico, o un parente, come quando sai che non sei solo, perché qualcuno ti pensa, qualcuno ti viene a trovare. Luigi però non ha retto l’operazione, il suo cuore non ha retto, e così ci ha lasciato anche lui. 

“Ora è in un posto migliore” è la frase che, quale mantra, ripeto o ci ripetiamo alla ricerca di un po’ di consolazione e per dare un fondamento a quella speranza, quell’attesa, non solo di una vita dopo la morte ma di una vita bella e piena dopo la morte, o calda e accogliente come quando parlavamo di Giorgio. 

Eventi come questi, che non hanno niente di straordinario ma sono piuttosto permeati di naturalità e di ordinarietà, ci obbligano a fare i conti con la propria vita, e chiederci se stiamo sfruttando ogni momento che ci viene concesso. La domanda che sorge spontanea, a noi di Wecare, è quella di chiederci quanto stiamo amando le persone che ci sono accanto? Non basta offrire servizi, importantissimi per carità, costruire scuole e case, o portare da mangiare a chi ne ha bisogno, si tratti di una famiglia o di una persona per strada, questo non basta se in tutto ciò non mettiamo dell’amore, se non creiamo vincoli e relazioni, se non mettiamo della gentilezza. L’amore si rende concreto nel come di uno sguardo, nelle parole, nei nostri gesti, nell’unicità che è il dono di ognuno di noi, il dono che rappresenta ognuna delle persone che serviamo, il dono che è ognuno dei nostri volontari e dei nostri sostenitori. Pur essendo consapevoli che la nostra vita terrena avrà un punto finale, siamo ben consapevoli che quello che di noi in questa vita rimane è quanto abbiamo amato. Perché l’amore che abbiamo dato non ce lo toglierà più nessuno, perché la carità rimane e vive nel ricordo e nella memoria di chi l’ha incontrata. 

La Pasqua è vicina, essa ricorda il trionfo della vita sulla morte, che la vita non si limita a quello che è il nostro pellegrinaggio terreno, che la morte è solo un passaggio, doloroso il più delle volte, ma sempre un passaggio nella speranza di una vita piena: piena di bellezza, piena di verità, piena di bontà. Per i credenti, la speranza di una vita dopo la morte, quella speranza che ha segnato sin dai secoli le culture più svariate e diffuse sulla terra, prende un volto, quello di Cristo crocifisso e risorto. Oggi Giorgio e Luigi vivono nel ricordo dei nostri cuori, non tanto per quanto hanno fatto, ma per come facevano le cose: con simpatia, con gentilezza, con gioia, e tutto ciò nonostante le mille ferite della loro vita e le fragilità personali, a testimoniare che esse, ferite e fragilità, non sono mai una scusa per non amare radicalmente. Oggi loro vivono quella vita piena, è questa la nostra speranza, è questa la speranza che il Cristo ha voluto donare all’umanità.

Vi auguriamo una felice Pasqua, Pasqua di Risurrezione, perché l’amore sconfigge la morte, ed essa non ha più l’ultima parola sulla nostra esistenza.