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July 18, 2025

Alla ricerca di una vita piena

Fernando Lozada

Siamo solo al secondo giorno effettivo qui a Posadas, eppure la routine del mattino sembra già ben rodata. La sveglia suona alle 7:00, i ragazzi scendono lentamente i piani fino alla cappella, dove ci raccogliamo per la preghiera del mattino: un momento prezioso per rivolgere lo sguardo dentro di noi. Poi, una colazione semplice ma essenziale, per nutrire il corpo prima di affrontare le ore intense di costruzione.

Prima di partire, però, ci attende la prima conferenza del viaggio — anche se “conferenza” forse non rende giustizia a ciò che realmente viviamo. Il tema che accompagna il nostro cammino, dopo l’invito a scavare dentro di noi e domandarci chi siamo, è la felicità.

Per introdurre questo tema partiamo da un brano del Vangelo a me particolarmente caro, che cerco di proporre con uno sguardo più vivace e vicino alla sensibilità dei ragazzi — un approccio forse diverso da quello a cui siamo abituati nelle nostre parrocchie. Almeno, questo è il mio desiderio. In fondo, siamo tutti un po’ come quel giovane ricco: un ragazzo che, pur avendo tutto, avverte dentro di sé una mancanza, un vuoto che lo spinge a porre pubblicamente una domanda radicale sulla vita eterna. Ma quella domanda non riguarda solo l’aldilà: è una domanda sul senso, su come vivere una vita piena, vera, qui e ora. Perché è nel presente quotidiano che si gioca davvero la nostra pienezza di vita.

Il giovane ricco non è solo ricco di beni materiali — con tutte le opportunità che questo comporta — ma è anche ricco di tempo: è giovane, e ha teoricamente tutta la vita davanti a sé. Possiamo dire che è ricco anche nella sua statura morale: è un uomo giusto, corretto, potremmo persino definirlo buono, secondo quanto lui stesso afferma.

Ci troviamo, insomma, di fronte a una figura che sembra avere tutto: mezzi, futuro, valori. Eppure, dentro di lui si apre uno spazio di inquietudine, una domanda che lo spinge a cercare di più. E quella domanda, sorprendentemente, non la rivolge ai sapienti del tempo, ma a un uomo che, agli occhi di molti, era solo un giovane sconosciuto, l’ultimo arrivato da un paesino della Giudea.

Un po’ come i nostri ragazzi. Sappiamo che non manca loro l’essenziale: hanno il tempo — perché sono giovani — e, almeno per il fatto di aver scelto di trascorrere due settimane qui, possiamo dire che hanno anche un cuore aperto, generoso. Eppure, anche loro, come il giovane ricco, stanno cercando qualcosa di più. Forse non sanno ancora bene cosa, ma qualcosa li ha mossi. E forse, senza nemmeno rendersene conto, sono venuti a cercarlo proprio qui, in un angolo remoto dell’Argentina, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico.

Perché la felicità che ogni uomo e ogni donna cercano non si costruisce soltanto sulle sicurezze materiali — per quanto importanti siano — né si esaurisce in un semplice desiderio di essere moralmente corretti. Quello che desideriamo, in fondo, è una felicità profonda, così salda da non essere scalfita nemmeno dalle tempeste della vita. Una felicità che non svanisce quando le cose vanno male, ma che sa resistere, sostenendoci nei momenti difficili che, prima o poi, arrivano per tutti. Non una felicità legata alle emozioni del momento o agli eventi esterni, ma radicata nella consapevolezza di chi siamo: nel sapere, in modo chiaro e profondo, di essere unici, amati e irripetibili.

Nessuno di noi può essere davvero felice se le proprie scelte non sono in sintonia con la propria identità, con ciò che siamo nel profondo. Quando prendiamo decisioni lontane dalla nostra essenza, finiamo per vivere un malessere sottile ma persistente: ci sentiamo fuori posto, inadeguati, quando in realtà siamo solo lontani da noi stessi.

È come chi sceglie di seguire un percorso universitario per il prestigio o le aspettative sociali, pur sapendo di non avere passione né inclinazione per quella strada. All’inizio si stringe i denti, ma con il tempo arriva la frustrazione, e spesso anche il dubbio su sé stessi. Ma il problema non siamo noi: è la scelta che abbiamo fatto, che non corrisponde a chi siamo. Credo che la via della felicità passi innanzitutto attraverso la fedeltà a sé stessi. Questo non significa non ascoltare gli altri — anzi, chi ci conosce, ci stima e ci vuole bene può offrirci uno sguardo prezioso. Ma significa riconoscere che siamo noi i primi responsabili della ricerca e della costruzione di quella vita piena che il nostro cuore desidera. E un compito così importante non può essere lasciato nelle mani delle aspettative altrui.

Abbiamo fame e sete di una vita piena, come se qualcosa di infinito fosse racchiuso nei confini della nostra finitezza.  Mi sembra che delle volte cerchiamo di riempire l’infinita ricerca della nostra anima con una varietà di cose o scelte, che essendo finite, non riescono mai a colmare pienamente quella fame e sete che percepiamo forti quando siamo più a contatto con noi stessi.

Alle 9:15 saliamo sui pullman. Durante i trenta minuti che ci separano dalla baraccopoli, i ragazzi chiacchierano, cantano, si lasciano incantare dal paesaggio che scorre fuori dal finestrino. La giornata era iniziata con un sole tiepido, ma presto ha ceduto il passo a un vento freddo e a nuvole che hanno spento il calore del mattino. Quando arriviamo al Pozo, ci attendono le famiglie e i volontari di Techo: è il momento di iniziare la costruzione.

Oggi la giornata è interamente dedicata alle fondamenta. Grossi pali di legno vengono interrati ad almeno mezzo metro di profondità; ognuno deve essere posizionato con estrema precisione, alla stessa altezza degli altri, affinché il pavimento risulti perfettamente livellato e non ci siano difficoltà nel montaggio delle pareti. Scavare è faticoso, e il livello di difficoltà cambia a seconda del terreno su cui sorgerà ogni casa. A tutto questo si aggiunge la fatica della precisione, che richiede pazienza e lucidità: per fare un buon lavoro, ma anche per non perdere la calma quando il tempo sembra essere sprecato in un’attività che non procede come vorremmo. Questa fase della costruzione è cruciale: anche un piccolo errore può costringere a smontare tutto per sistemarlo. E se ce ne si accorge a pavimento già posato — o peggio, a pareti montate — la fatica non raddoppia soltanto, ma può moltiplicarsi per dieci.

Torniamo a casa intorno alle 17:00, quando quasi tutte le squadre sono riuscite a completare correttamente le fondamenta. Ad attenderci c’è la solita merenda. I ragazzi afferrano subito il pallone da calcio e — grande novità — anche quello da pallavolo, richiesto con entusiasmo dalle ragazze. La stanchezza della giornata sembra svanire: in campo si trasformano in veri sportivi, energici e agguerriti, come se non avessero passato ore a scavare e livellare il terreno.

Alle 19:30 celebriamo la Messa per chi lo desidera, mentre alle 20:00 ci accoglie in sala da pranzo il profumo del pollo al forno con le verdure. Durante il briefing di fine giornata, introduco brevemente la dinamica dei gruppi di riflessione, che inizieranno domani. Poi lasciamo spazio ai ragazzi per formare liberamente i gruppi, affinché ognuno possa trovarsi all’interno di una rete di relazioni in cui sentirsi a proprio agio. L’obiettivo è semplice ma profondo: creare un contesto in cui poter condividere ciò che questa esperienza sta lasciando nel cuore, ma anche rileggere parti del proprio passato alla luce di ciò che stiamo vivendo qui, insieme.