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Che cosa mi rende davvero felice?
Il jet lag si fa ancora sentire. C’è chi, come me, è sveglio dalle 4:30 e non riesce più a chiudere occhio… e c’è chi, invece, non l’ha nemmeno percepito e riesce a dormire filato fino alle 7. Un orario piuttosto traumatico, almeno nell’area maschile, quando lo staff decide di dare il buongiorno con le hit musicali del momento, selezionate con cura per un risveglio “dolce”… si fa per dire. Sul fronte femminile, invece, non smette mai di stupire la delicatezza con cui le ragazze vengono svegliate. Due mondi diversi, ma nessuno si lamenta. O almeno, non apertamente: ci sono dei codici silenziosi tra i ragazzi, e va bene così. Peccato solo che io dorma nell’area dei maschi… ma sopravviverò. Almeno finché il jet lag mi tiene sveglio prima delle canzoni. La routine mattutina segue più o meno il manuale: quasi tutti puntuali alla preghiera iniziale, poi colazione. E che colazione: uova strapazzate, frutta in abbondanza, latte, caffè, pane, burro e marmellata, cereali e yogurt. Direi che nessuno può davvero lamentarsi… almeno a tavola!
Alle 8:30, terminate le chiamate da e per i genitori, ci raduniamo in auditorio per introdurre il tema che ci accompagnerà nei prossimi due giorni. La sera prima avevo lasciato ai ragazzi un compito semplice solo in apparenza: farsi una domanda. “Quanto mi conosco?” Una domanda fondamentale per imparare a fare scelte consapevoli — quelle grandi, ma anche quelle di ogni giorno. Ora, da questa domanda, ci lasciamo guidare verso un tema ancora più profondo: la felicità.Un tema delicato, perché il rischio è sempre quello di banalizzarlo. Di ridurre la felicità a un semplice stato d’animo, qualcosa che va e viene, e non invece a una bussola interiore, un orientamento di vita. Molto dipende, certo, da come la si intende.
Il nostro obiettivo, o almeno il nostro tentativo, è di spronare i ragazzi a domandarsi: Come cerco la felicità? Cosa me ne allontana? Quanto dipende da me, e quanto dalle scelte degli altri? E ancora: Che posto hanno il dolore e le difficoltà in questo percorso? Si può essere felici anche quando succede qualcosa di brutto o che mi fa star male?
Intendiamo la felicità non come un’emozione passeggera, ma come pienezza, come una vita che risponde profondamente alla propria identità. Ecco perché è così importante conoscersi sempre più a fondo: solo chi si conosce può orientarsi verso ciò che davvero lo compie. Parliamo di una felicità che resiste anche nei momenti difficili, perché poggia su fondamenta solide, stabili, e non su ciò che passa, che è effimero. Una felicità che non dipende dall’umore del giorno, dal successo o dall’approvazione degli altri, ma da qualcosa di più vero, più duraturo.
Eppure, questa felicità che tutti cerchiamo — e che spesso cerchiamo anche con scelte sbagliate — non si costruisce da soli. L’esistenza di chi ci ama, e di chi amiamo, è essenziale. Perché nessuno, se è onesto con sé stesso, può dirsi davvero felice se nella sua vita manca l’amore: amore ricevuto, e amore dato. Viviamo in una società che ci illude — anche se, in fondo, nessuno ci crede davvero — che la pienezza coincida con il successo, con il possesso, con l’arrivare in alto. E certo, è bello e giusto desiderare di far fiorire le proprie capacità (soprattutto se le mettiamo al servizio degli altri). Ma se questo “fiorire” ci porta a trascurare l’amore che possiamo dare e quello di cui abbiamo bisogno, alla fine si rivelerà sterile. Un fiorire temporaneo.
E allora, nel silenzio dell’auditorium, risuonano forte due domande: Di cosa hai davvero bisogno per essere felice? Cosa ti allontana dalla tua felicità?
Scopriamo insieme un primo grande equivoco in cui spesso cadiamo: “vivere” per rispondere alle aspettative degli altri, dimenticando — o peggio, accantonando — le nostre passioni, i nostri desideri più autentici. Ecco perché diventa fondamentale conoscerci, dare un nome a ciò che riempie davvero il nostro cuore… e anche a tutto ciò che ci ostacola.
Riprendiamo allora il discorso sulle “cavità del cuore”, dove dolori e paure sembrano in lotta con gioie e desideri. I dolori appartengono al passato; le paure si nutrono di quei dolori e guardano con timore al futuro. Le gioie, anche loro radicate nel passato, e i desideri, invece, ci spingono in avanti, ci aprono alla vita. È come se il cuore fosse diviso: la parte sinistra ci trattiene, ci appesantisce, ci incatena. Quella destra ci invita a volare, a gioire, a scommettere sulla vita. Ma sarebbe infantile, o quantomeno superficiale, metterle in contrasto, come se una parte fosse da eliminare per lasciare spazio solo all’altra. La verità è che anche ciò che ci ha feriti può diventare occasione di crescita e maturità. Tutto dipende da come scegliamo di vivere quei momenti, e soprattutto da chi abbiamo accanto mentre li attraversiamo.
Chiudiamo il discorso ricordando ai ragazzi una cosa fondamentale: anche se oggi si sentono piccoli, la loro vita è una cosa molto seria. Il senso che sceglieranno di dare alla loro esistenza, nella ricerca della pienezza, dipende da tanti fattori… ma il primo, il più decisivo, sono loro stessi. Il desiderio di cose grandi, belle, buone, autentiche e vere non va soffocato. Al contrario, va custodito e seguito con coraggio. E concludiamo nel dire loro di rifiutare tutto ciò che li allontana dalla loro versione migliore.
Saliamo sui pullman e partiamo per la nostra seconda giornata di lavoro. Questa volta non servono introduzioni né spiegazioni: ogni gruppo, insieme al proprio responsabile, si dirige direttamente nella propria area e si mette all’opera. Fa particolarmente piacere vedere un gruppo di adolescenti, abituati a vivere tra mille stimoli e distrazioni, coinvolgersi con entusiasmo in attività fisicamente impegnative: fare cemento, spostare rocce, lavorare come veri operai. Eppure succede. Perché la forza del gruppo fa la differenza: trasforma un lavoro faticoso e ripetitivo in un’occasione di straordinaria condivisione. Soprattutto quando si lavora insieme per una causa che vale.


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Verso mezzogiorno, però, ci prendiamo un bello spavento — o almeno lo fanno quelli che si accorgono di cosa sta succedendo. La montagna sotto i nostri piedi comincia a tremare, ma soprattutto a fare un rumore assordante. C’è un terremoto in corso. Scopriremo poi che si è trattato di una scossa di magnitudo 6.1, con epicentro al largo della costa del Callao, la città costiera adiacente a Lima. Alcuni ragazzi capiscono subito cosa sta accadendo, altri invece continuano a lavorare come se nulla fosse… qualcuno, addirittura, pensa che stia semplicemente passando la metro! Passato lo spavento, verifichiamo la situazione, consultiamo i report e, una volta assicuratoci di potere continuare a lavorare in sicurezza, decidiamo di proseguire il lavoro. La missione non si ferma.

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Oggi in Perù si celebra la Festa del Papà, motivo per cui si lavora solo fino alle 16. Abbiamo completato sette quadranti, uno in meno rispetto a quanto ci eravamo prefissati… ma è giusto così. Anzi, più che giusto: i nostri operai e gli autisti dei pullman meritano di tornare a casa il prima possibile, per essere festeggiati dai loro figli e dalle loro famiglie.
Una volta rientrati a casa, il rituale è sempre lo stesso: i ragazzi si lanciano in una partita di calcio — e stavolta tutti tornano illesi, ma ancora più affiatati di prima. Nel frattempo, le ragazze si preparano per l’appuntamento delle 18:30: i gruppi di riflessione. Le dividiamo in cinque gruppi, ognuno affidato a una delle ragazze dello staff, a padre Gonzalo… e a me. Ma dei gruppi di riflessione vi racconteremo un’altra volta.
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