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Con la nostalgia dell’infinito
Questa mattina è iniziata con occhi lucidi, consapevoli che il tragitto verso la scuola lo stavamo percorrendo per l’ultima volta. Ogni passo, ogni sguardo, ogni stretta di mano ai bambini aveva il sapore di un addio. Eppure, insieme alla malinconia, nei ragazzi brillava anche un sorriso sincero: l’orgoglio di vedere completato quel lavoro che per giorni aveva richiesto forza, sudore e pazienza.
Appena arrivati, ci siamo messi subito all’opera per consegnare il materiale scolastico, i vestiti e, soprattutto, le scarpe — un bene prezioso che molti bambini non hanno. Classe dopo classe, i ragazzi distribuivano ogni oggetto con attenzione, cercando di regalare a ciascun bambino un momento speciale, fatto di un piccolo dono e di un sorriso.
La mattinata è poi esplosa di musica e colori grazie ai tre ballerini che, ormai, sono diventati parte della nostra squadra. Hanno organizzato una grande festa, insegnando ai bambini una coreografia e ballando tutti insieme, mescolando ritmi locali e canzoni che i ragazzi avevano portato dall’Italia.


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Per chiudere la nostra permanenza alla scuola — che nel tempo è diventata una seconda casa — i ragazzi hanno proposto una sfida di pallavolo: Italia contro Ruanda, volontari contro operai e insegnanti. La partita è stata combattuta, e quando sembrava che la sconfitta fosse inevitabile — sotto di 19 a 24 — una rimonta incredibile ha portato i nostri ragazzi alla vittoria. Ma più del risultato, ciò che contava era l’atmosfera: un momento di gioco e di leggerezza, condiviso con persone che ogni giorno lavorano senza sosta per rendere la scuola un luogo migliore, più sicuro e più accogliente per tutti i bambini.
La partenza è stata dura. Abbracci stretti, ultime foto, scambi di lettere e promesse di rivedersi. Lasciamo questo posto con un velo di tristezza, ma soprattutto con un bagaglio pieno: non solo la sensazione di aver dato, ma anche quella — ancora più forte — di aver ricevuto. Perché in queste due settimane, che ci sono sembrate molte di più, non abbiamo semplicemente costruito muri e tinteggiato pareti: abbiamo intrecciato storie e lasciato un pezzo di cuore in questa terra che resterà per sempre parte di noi.
Tornati in albergo, abbiamo letto ai ragazzi una lettera scritta dallo staff che li ha seguiti in questo viaggio, un sunto del loro percorso, della loro esperienza, almeno ai nostri occhi. L’ultimo esercizio personale è un momento che è diventato tradizione: la lettera a se stessi. Ogni anno, alla fine della missione, consegniamo ai ragazzi un foglio bianco, una busta e una penna. Nessuna consegna precisa, solo una richiesta sincera: scrivete al voi del futuro. Raccontate cosa avete vissuto, cosa avete capito, cosa non volete dimenticare. Scrivete per fissare, per custodire, per non perdere nulla di ciò che è stato.
Kibungo, 12 Agosto 2025
Cari ragazzi,
Eccoci qua. Siamo giunti alla fine del nostro viaggio. Non so se riusciremo a esprimere con quanta ammirazione, e non esagero, vi abbiamo visto donarvi completamente all’altro durante questi dodici giorni. Donarvi nel lavoro, nella fatica che richiede impastare del cemento. Donarvi nella pazienza necessaria per ripetere un gesto meccanicamente per ore. Donarvi nell’attenzione che ci vuole per pitturare con minuzia disegni dai bordi complicati (e non scherzo). Donarvi completamente nello sforzo necessario ad occuparsi di decine di bambini ognuno desideroso di un’attenzione unica e particolareggiata. Donarvi con gli operai, con cui è così difficile comunicare. Donarvi tra di voi, vedervi stringere legami profondi, reali, che prescindono da maschere di circostanza e arrivano più vicine alla verità di voi stessi. E tutto questo si è tradotto in un bagno, necessario per la dignità dei ragazzi di cui tanto amorevolmente vi siete presi cura. Si è tradotto in aule in cui bambini abituati al nulla potranno studiare circondati da un ambiente che dica loro Amore, Impegno, Attenzione. Si è tradotto in un campo da calcio pieno di bambini grati per la vostra apertura alle loro necessità, bambini che ridono, piangono, salutano e ringraziano di cuore 23 Umuzungu che hanno deciso di aprirsi alla loro realtà, a 360 gradi. Donarvi a noi, che abbiamo avuto la fortuna di condividere con voi questi bellissimi, faticosi e intensi dodici giorni. Sarebbe superfluo dirvi quanto ci avete arricchito: con l’esempio, con la gioia, con le condivisioni e con tutti i piccoli e grandi momenti passati insieme. E infine, ammirazione per la qualità e serietà con cui vi siete donati a voi stessi. E realmente speriamo che abbiate approfittato dei momenti privilegiati di silenzio in cui avete potuto riflettere onestamente e senza finzioni costruite sulla realtà di voi stessi. Giorno dopo giorno abbiamo cercato di camminare dentro all’impero del nostro Cuore. Ci siamo interrogati sui nostri sogni e desideri più profondi. Abbiamo cercato di arrivare al centro delle nostre aspirazioni purificandole dal caos intrinseco della nostra routine cittadina. E nel fare ciò ci siamo scontrati con il mistero più grande dell’uomo, il mistero del male. Abbiamo iniziato a dare ascolto a ferite ignorate, ci siamo presi cura di fratture dimenticate e magari sono emersi in noi dolori sconosciuti. Queste ferite ci bloccano, ci impediscono di prendere le decisioni che solo noi possiamo prendere, in cui nessuno ci può sostituire, quelle decisioni che informano la nostra realtà, che determinano una parte fondamentale della nostra esistenza. Tutto questo carico di dolore, tutto questo carico di miseria ci porta a vivere una vita insufficiente, una vita che non è la nostra. Ci sentiamo prigionieri in un corpo straniero. Temiamo di restare soli e di non essere amati e questo ci porta ad essere altro da noi, a vivere una vita da comparse, finte, a sentire che la nostra esistenza non è nostra. Con coraggio quindi abbiamo cercato di dare un nome al buio del nostro cuore e con altrettanto coraggio, forse, abbiamo iniziato a farci i conti. Abbiamo visto che in ogni male c’è un’occasione di riscatto, che ogni crepa può renderci diversi, preziosi, unici se riusciamo a sanarla con l’oro dell’amore. Abbiamo intuito che le ferite rivestite di senso e pacificate diventano occasione di luce e vita, le ferite ignorate, escluse, temute ci lasciano bloccate in un eterno passato che diventa strumento di angoscia e morte. E siamo andati a sbattere su questo amore, che non è sentimento che va e viene, non è fuga dalle nostre ferite, non è rifiuto di accettazione della realtà ma è impegno, verità, responsabilità di coltivare sé stessi e gli altri nella propria verità. La salvezza viene dall’amore, ma l’amore è duro, richiede impegno, fatica e dolore. Per amare bisogna sentirsi amati, sentire uno sguardo di amore che si poggi su di noi, che impedisca al mondo di caricarci di aspettative assurde che ci fanno sentire sbagliati, inadeguati, scorretti, che ci fanno disprezzare noi stessi. Il dolore è una spia che ci aiuta a comprendere dove noi ci sentiamo inadeguati, da disprezzare, non amati ed è li che possiamo agire, dobbiamo agire, nel mondo dei SE che ci lasciano con un profondo senso di inadeguatezza. Ma l’amore non si riceve e basta, l’amore si da, l’amore è anche e soprattutto un’apertura. Un’apertura ad ascoltare la voce silenziosa che ci ricorda costantemente quanto siamo unici ed amati così come siamo e un’apertura a donare il nostro cuore, certo, con il rischio che questi venga spezzato, deriso, rifiutato. L’amore è per sua natura espansivo, lanciato fuori dell’io, e ogni lancio comporta un rischio e un affidarsi. Senza questa apertura, senza questo rischio però l’inferno si spalanca davanti a noi, come ci ricorda Lewis: “Se volete avere la certezza che esso (il cuore) rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno ad un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scrigno – al sicuro, nel buio, immobile, sottovuoto – esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile […] l’unico posto oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e turbamenti dell’amore è l’inferno”.
Ora però è arrivato il momento di tornare a casa. Per un po' di tempo abbiamo vissuto in una bolla spirituale fatta di densi momenti di riflessione e silenzio, probabilmente avete anche avvertito come molte vanità, molte oscurità, molte apparenze anguste siano cadute con naturalezza, ma bisogna pur ritornare alla vita di tutti i giorni con le sue cure e le sue inquietudini. È una bella cosa tornare a casa, ridiscendere. Ma come affrontare il ritorno a casa? Noi siamo amati, noi siamo unici, noi siamo necessari… ma le condizioni che ci attendono a casa non sono cambiate, minimamente, i problemi sono ancora lì, le sfide anche, la famiglia, gli amici, l’ambiente è lo stesso, le condizioni identiche, cosa allora mi posso portare dietro da questo viaggio? Il ricordo della vostra interiorità. E per ricordo intendo il costante rimettere al centro del Cuore, del vostro Cuore, la consapevolezza che siete amati, unici, speciali, necessari. Il vostro cuore vale il mondo intero, e sono stato sufficientemente convinto dalla vita che se voi vi prendete sul serio, veramente, senza mentirvi e impegnandovi a penetrare nel profondo della vostra interiorità, nel profondo della realtà che ci circonda, ecco, vi troverete a regnare sulla realtà che siete chiamati a vivere, qualunque essa sia. Se realmente sarete in grado di dominare l’impero del vostro cuore, il mondo, con tutte le sue difficoltà, asprezze e contraddizioni sarà amico nel viaggio della vita, l’altro sarà alleato e non oggetto e la vostra intimità sperimenterà una costante pace dolorosa che altro non è che il segno di un uomo che È. Vi invito a portare con voi il tesoro del silenzio, la consapevolezza che avere settimanalmente uno spazio per voi realmente può cambiare non solo la vostra vita ma anche trasfigurare il mondo accanto a voi. Ognuno di noi vive con le sue miserie e debolezze ma credo che da questo viaggio possiate portarvi dietro la certezza che vivere il presente calato profondamente negli abissi del reale vi permetta veramente di vivere nella realtà con amore, e l’amore non sa restare solo, deve dispensare la sua sovrabbondanza. L’amore suscita la vita, sconfina senza limiti. Abbiamo spesso parlato della vita come un viaggio, e allora vi invito a pensare al corpo come la barca che ci porta ad affrontare questo viaggio, c’è una frase del piccolo principe che io ho sempre trovata emozionante: "Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito." Ecco, tornate a casa con questa nostalgia di infinito. Trovate in voi gli strumenti per costruire la vostra barca e abbiate il coraggio di scendere nel mare della vita e navigare in luoghi in cui solo voi potete navigare. Concludendo, spero veramente che l’unione dei due viaggi che avete condotto con così tanto impegno vi permetta di tornare a casa avendo più strumenti per poter affrontare il mondo che vi aspetta, avendo più strumenti per compiere il vostro dovere con amore, attenzione e pazienza e soprattutto che vi dia più strumenti per affrontare con gioia, coraggio e fiducia le innumerevoli sfide e sofferenze che la vita vi metterà davanti. Concludo parafrasando delle parole finali di un bellissimo film: "Che voi possiate avere, sempre, il vento in poppa, che il sole vi risplenda in viso e che il vento del destino vi porti in alto a danzare con le stelle."
Grazie mille di tutto il vostro prezioso lavoro e buona lettera finale.
Lo staff di Wecare

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