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Desidero una vita piena!
Oggi è un giorno di festa. La giornata non è ancora cominciata, eppure lo sento, dentro di me: sarà una giornata di festa. La notte è stata tremenda. Non sono riuscito a dormire fino alle quattro, vittima della mia irrefrenabile voglia di dolce — e della poca prudenza con cui l’ho assecondata. Ma nonostante tutto, lo so: oggi sarà una bella giornata per i ragazzi, e quindi anche per tutti noi che camminiamo accanto a loro.
Stamattina sia il gruppo A che il gruppo B hanno fatto i gruppi di riflessione presto, prima di partire per il lavoro. I cantieri ormai sono quasi finiti, ci restano solo piccoli dettagli da sistemare. I gruppi sono stati splendidi. È vero che il “mood” cambia: al mattino, appena svegli, si è diversi rispetto alla sera, quando ci si ritrova stanchi ma con il cuore pieno per tutto ciò che si è vissuto e donato. Eppure, anche al mattino, i gruppi si rivelano ogni volta uno spazio prezioso di ascolto. Per quanto mi riguarda, sono stati momenti profondamente commoventi. Mi commuove vedere ragazzi così giovani — ragazzi che spesso la società etichetta, giudica, sminuisce — capaci invece di una profondità disarmante. Hanno un mondo interiore ricchissimo: serve solo creare uno spazio giusto, sicuro, in cui possano sentirsi accolti. E allora si aprono, e nel condividere le loro gioie e le loro ferite, riescono ad arricchire la vita di tutti noi che abbiamo il privilegio di ascoltarli.
Riemerge con forza la paura di perdersi nella vita, di lasciare che il tempo passi senza costruire nulla che risponda davvero ai propri desideri, sogni o passioni.
Ho davanti a me ragazzi di sedici anni che si chiedono, con lucidità sorprendente, se tra vent’anni, guardandosi indietro, potranno descrivere la loro vita come piena. Ho davanti a me ragazzi che hanno paura di non essere amati, di perdere tutto l’amore che oggi sentono, di non esserne all’altezza, di non meritarlo.
A volte queste paure sembrano non avere una causa precisa. Altre volte, invece, sono ferite reali, profonde, che parlano chiaro. Il desiderio di una vita autentica e libera — una vita piena — si scontra con l’angoscia di sentirsi intrappolati in contesti soffocanti, che sembrano chiedere continuamente di essere altro rispetto a ciò che si è. Questi ragazzi lo sanno bene: che una vita piena non è possibile se non si è fedeli a se stessi. Ma allo stesso tempo temono che, scegliendo di esserlo, finiranno per essere esclusi, tagliati fuori, lasciati soli. È dentro questa tensione che si giocano le domande più vere.
È sempre toccante vederli condividere. E ancora più bello è osservarli mentre si rendono conto che non sono soli: che le loro paure più profonde e i desideri più autentici li uniscono. Perché in fondo l’essere umano trova compimento solo nell’amore. Un amore che va accolto, sì, ma che prima di tutto va vissuto. E va vissuto a partire da sé stessi. Come posso amare, se non amo me stesso? Come posso essere davvero felice, se non mi accetto per quello che sono? Dove posso andare, se non riconosco il mio valore? Per molti di questi ragazzi, amare sé stessi non è affatto scontato. Molti hanno creduto — magari senza accorgersene — a una bugia profonda, insinuata nell’inconscio: quella che ci definisce solo attraverso ciò che in noi non funziona, che ci ripete che siamo sbagliati, inadeguati, e che sognare non è cosa da adulti. È una voce che logora dentro, che spegne la luce del desiderio, che riduce la vita a una serie di doveri da compiere senza mai chiedersi davvero: Chi sono io? E cosa desidero, nel profondo? E allora succede qualcosa. Dopo i silenzi, arrivano le parole. Dopo le parole, le lacrime. E poi i sorrisi, gli abbracci. Perché quando si ha il coraggio di aprire il cuore, di mostrarsi nella propria vulnerabilità, qualcosa cambia. E la solidarietà non può che emergere. Perché nel momento in cui ci si espone, si scopre che anche l’altro porta dentro le stesse ferite. E che insieme, forse, si può cominciare a guarire.
Partiamo e verso le 11 del mattino siamo tutti nei rispettivi cantieri. C’è ancora tempo per pulire, spostare un po’ di terra da un lato all’altro e sistemare tutto in vista delle benedizioni: quella del muro e quella del campetto da calcio. I ragazzi sono felici, solari. Lo si legge nei loro occhi: c’è soddisfazione per il lavoro fatto, ma anche commozione per i sorrisi e l’accoglienza delle persone con cui hanno condiviso questi giorni e a cui stanno per consegnare questi “doni”.
I beneficiari hanno preparato una vera festa: palloncini colorati, bandiere del Perù e dell’Italia, perfino dei balli tradizionali. Tutti e due i gruppi si ritrovano nella parte alta dell’insediamento, per la benedizione del muro. E a me, quel momento, toglie il fiato. Solo sette giorni fa qui non c’era nulla. Oggi si erge un muro enorme, costruito con le mani, il sudore, e la dedizione dei ragazzi. Dopo la benedizione, come vuole la tradizione peruviana, rompiamo una bottiglia di vino contro il muro, in segno di festa e buon auspicio.

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Poi scendiamo—quasi cento scalini—per arrivare al campetto di calcio. Anche lì c’è una benedizione, ma soprattutto c’è tanta emozione. Alcuni ragazzi piangono. Non perché stanno per andarsene o perché temono di non rivedere più chi hanno incontrato, ma perché sono sinceramente commossi. Commuove la gioia delle persone, le parole delle mamme che oggi sanno di avere, proprio dietro casa, uno spazio sicuro dove i loro figli possono giocare senza paura, senza rischi.
C’è un’atmosfera di festa vera. E i ragazzi, ancora una volta, restano sorpresi: dai sorrisi, dall’accoglienza, dall’amore ricevuto. Forse è in quel momento che iniziano a capire davvero che quel “poco” che hanno fatto in questi giorni… per questa comunità è tantissimo. È immenso.

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Arriva l’ora di pranzo, e alcune ragazze del gruppo A hanno un’idea bellissima: cucinare loro per le signore peruviane che in questi giorni le hanno servite con tanta cura. Il menù? Ovviamente… pasta! Un enorme pentolone pieno d’acqua sul fuoco, un altro con sugo al pomodoro, sedano, carote e cipolla – devo dire, davvero straordinario. Le ragazze si mettono all’opera e preparano chili di pasta al sugo e in bianco. Abbiamo persino comprato il parmigiano – chiamarlo così forse è un po’ un crimine, ma considerando che siamo in Perù, in una baraccopoli, è davvero un lusso. Le prime a essere servite sono proprio le signore: sorridono, ringraziano, si godono ogni boccone. “¡Como en Italia!”, dicono entusiaste. Anche per i ragazzi è un momento speciale, quasi un anticipo di casa, di sapori familiari. Anche se, a dire il vero, il Perù – con tutte le sue sfide – sta già iniziando a diventare casa. Perché casa non è un luogo fisico, non è un edificio. Casa è dove ci sentiamo visti, accolti, amati. O almeno… dovrebbe esserlo sempre.
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Dopo pranzo andiamo a salutare per l’ultima volta i nostri amici negli istituti. Ci accolgono con delle piccole feste preparate apposta per noi. Anche qui, tra sorrisi e abbracci, c’è chi si è affezionato profondamente… e nel momento dei saluti, qualche lacrima scende inevitabilmente. Rientriamo a casa verso le 18:30. Domani la partenza sarà all’alba: trascorreremo la giornata in una tenuta, con la speranza che il tempo sia più clemente. La serata, quindi, scorre tra valigie da chiudere, controlli incrociati dei passaporti, e una certa stanchezza che comincia a farsi sentire. Ad attenderci c’è Cañete, dove inizieremo la costruzione delle case. Intanto il gruppo A conclude la giornata con un momento di festa: Lilla compie 17 anni, Alessandra 16. Due compleanni speciali, celebrati in un luogo e in un tempo che difficilmente dimenticheranno.

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