
Dove abita la felicità autentica
La giornata è cominciata presto, quando il cielo era ancora velato e l’aria portava con sé il silenzio delle prime ore. Dopo il viaggio intenso di ieri, i corpi erano ancora un po’ lenti, i pensieri sparsi tra le emozioni vissute e quelle che verranno. A colazione si parlava poco, ma bastavano gli sguardi per sentirsi di nuovo squadra.
La giornata è cominciata con una nuova conferenza, il primo vero momento di riflessione dopo l’arrivo. Il tema non era semplice, anche se all’apparenza poteva sembrarlo: la felicità. Cos’è davvero? Come si riconosce? La stiamo vivendo o solo inseguendo? In un tempo in cui tutto sembra misurabile – i like, i follower, le cose che possiedi – provare a mettere ordine su cosa significhi davvero essere felici è più che necessario. È urgente.
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Alle 9 siamo saliti sul pullmino e ci siamo diretti verso Kibaya, il cuore del nostro progetto. Ad accoglierci c’erano decine di bambini. Occhi grandi, curiosi, pieni di quella luce che solo l’infanzia sa custodire. Sorrisi larghi, sinceri, che ci sono corsi incontro ancora prima che potessimo scendere del tutto. Nessuna parola, solo energia. Quella gioia che non ha bisogno di spiegazioni, che non urla, ma ti abbraccia forte.
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In quel momento, è stato chiaro a tutti che non eravamo lì solo per posare mattoni o mescolare cemento. Quello che siamo venuti a costruire va oltre la materia: è relazione, è ascolto, è presenza. Siamo qui per lasciare un segno, sì – ma anche per farci segnare. Perché ogni sguardo, ogni mano che si tende, ogni risata condivisa cambia qualcosa anche dentro di noi. È uno scambio, profondo e silenzioso, che comincia fin dal primo incontro. E che, forse, continuerà a crescere anche quando questo viaggio sarà finito.
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Dopo un breve benvenuto, i ragazzi si sono messi subito all’opera. Nessun tempo morto, nessuna esitazione. Un gruppo ha cominciato a preparare il cemento, un altro si è occupato del trasporto dei mattoni. Altri ancora, affiancati dagli operai locali, hanno iniziato a posare i primi strati della struttura: cemento, mattoni, mani impolverate e sguardi concentrati.
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Un altro gruppo ha scelto una missione diversa, ma non meno importante: stare con i bambini. Partite di calcio improvvisate, corse a perdifiato, staffette e tanta, tantissima macarena. Le risate riempivano l’aria, come se tutto il resto potesse aspettare.
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Alle 13, la pausa pranzo è arrivata come una tregua. I ragazzi sembrano contenti del cibo – vario, abbondante – e qualcuno ha accolto con entusiasmo un piatto di pasta: un piccolo assaggio di casa, tra un riso e uno stufato.
Nel pomeriggio i lavori sono ripresi. I gruppi si sono rimescolati, per dare a tutti la possibilità di mettersi alla prova in cose diverse. Il contatto costante con i bambini è diventato, per molti, lo stimolo più potente. Lì, in quei volti pieni di vita, c’è la ragione vera di ogni fatica.
Guardare quegli occhi brillanti mentre ci osservano lavorare, mentre ci chiedono “what’s your name?” per la centesima volta, è forse la risposta più semplice e vera a quella domanda di stamattina. Forse, la felicità, quella autentica, abita proprio qui.
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