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July 20, 2025

Il contrasto dell’uomo: tra sete di infinito e la realtà del male

Fernando Lozada

Mentre tutti fanno colazione, un gruppetto di ragazzi si allena nel campo da calcio: 40 minuti di corsa leggera, qualche flessione, addominali e qualche minuto di plank.
Il motivo? Hanno avuto la brillante idea di giocare a calcio… dentro l’auditorio. E non solo: come bersaglio, hanno scelto i vetri di una vecchia finestra.
Già giocare a calcio al chiuso era discutibile, ma mirare ai vetri… decisamente un po’ folle. Il risultato? Un vetro completamente in frantumi. Se fosse stata una pallonata arrivata per sbaglio da fuori, amen: si paga il danno e si va avanti. Ma in questo caso non potevamo non fare niente.  Più che una “punizione”, però, è diventato un momento di svago tra ragazzi tra risate, qualche lamentela, con uno spirito che alla fine fortifica i legami.

Alle 08:30 ci ritroviamo in auditorio per la seconda conferenza del nostro percorso.
Oggi partiamo da un contrasto profondo che attraversa l’esistenza umana — un contrasto che non può lasciarci indifferenti, ma che deve spingerci a interrogarci.
Quanto siamo davvero consapevoli di ciò che accade attorno a noi? E quanto, nel nostro piccolo, ne siamo complici o corresponsabili? È una contraddizione potente: nel cuore dell’uomo vive un desiderio infinito di bene, di verità, di bellezza. Una sete di infinito che trova pace solo nel dono di sé, nella risposta alla propria identità più profonda. Eppure, proprio dentro questo cuore, trova spazio anche il male.

L’esistenza umana si muove costantemente tra due estremi: da una parte la fame di eternità, il desiderio profondo di bene, verità e bellezza; dall’altra, la capacità, purtroppo reale, di fare del male. Basta aprire qualsiasi giornale per avere l’impressione che il mondo stia andando a rotoli. E basta guardarsi intorno, qui, nel luogo in cui ci troviamo con i ragazzi, per domandarci come sia possibile che, in un mondo ricco di risorse e possibilità, esistano ancora realtà segnate da un così profondo degrado umano e sociale. Ma la domanda non riguarda solo “gli altri”. Non servono i giornali o l’evidenza della povertà per fare i conti con il male: a volte basta osservare la nostra stessa vita e quella delle persone che ci circondano. Il male, il dolore e la sofferenza non risparmiano nessuno.
E non siamo solo vittime. Siamo anche capaci di compiere il male, spesso non in forme clamorose, ma nel silenzio delle piccole cose: un gesto di invidia, una parola detta per ferire, un’azione mancata. Ogni volta che scegliamo di non fare il bene, in qualche modo, contribuiamo anche noi al male. Penso soprattutto a quell’esperienza che molti vivono: la difficoltà a nutrire un vero apprezzamento per sé stessi. Sentirsi smarriti, invisibili, inadeguati. Come se nessuno ci vedesse davvero. Le ragioni possono essere le più diverse: ferite del passato, fratture familiari, relazioni spezzate in modo brusco, talvolta persino violento.

Cosa fare del dolore? Che senso dare alle nostre sofferenze? Di certo, non vanno trasformate in frustrazione, né in tristezza profonda, o usate come alibi per smettere di rispondere alla chiamata a una vita piena. Se c’è una sofferenza, passata o presente, nella nostra storia, qualunque essa sia, abbiamo tutti la possibilità di trasformarla in qualcosa di più grande e bello. Ma per farlo, dobbiamo prima uscire dalla logica della vittima: quella che ci fa tenere lo sguardo basso, che ci chiude alla speranza, e spesso ci spinge alla rabbia, verso noi stessi, verso quanti ci circondano, verso il mondo.

La sofferenza, in realtà, ha il potere di mostrarci per ciò che siamo davvero: nella nostra nudità, nella nostra essenza, senza più le sovrastrutture con cui spesso ci proteggiamo. È proprio toccando questa nudità, la nostra umana insufficienza, che possiamo accorgerci di non essere soli. Ci sono persone intorno a noi pronte a sostenerci, e spesso proprio nel momento del dolore crolla quella convinzione sbagliata di essere solo un peso.
La sofferenza ci insegna che solo l’amore guarisce davvero. E che senza amore, anche il percorso più profondo di consapevolezza (anche psicologico) rischia di restare sterile. Le ferite che portiamo, ognuna unica e irripetibile, hanno la forza di farci crescere e trovare qualcosa di prezioso per la nostra vita. Chi ha sofferto, quasi sempre, sviluppa una grande capacità di empatia: riesce a vedere e accogliere l’altro, a comprendere più a fondo chi si sente perso.

Concludiamo invitando i ragazzi a guardarsi dentro e a chiedersi: cosa sto davvero cercando ogni volta che compio il male? E ancora: cosa voglio fare del mio dolore? Posso scegliere di trasformarlo in qualcosa di bello e unico, oppure lasciarlo marcire in frustrazione e rabbia.

Oggi partiamo puntuali, con l’obiettivo chiaro: chiudere e verniciare tutte le case. Il sole splende forte e ci riscalda, mentre l’equilibrio tra lavoro fisico e attività con i bambini si mantiene perfetto. La baraccopoli è un’esplosione di vita, è una grande festa: con i nostri ragazzi che senza sosta alzano mura, chiudono tetti, verniciano ogni parete delle case; altri si lasciano travolgere dall’energia dei piccoli del Pozo, che li trasformano in bambini tra i bambini. È una presenza che riempie: riempie lo spazio, riempie l’aria con le risate. Ma soprattutto, riempie i cuori. Quelli di chi guarda, di chi partecipa, di chi da e di chi riceve che, senza accorgersene, si scambiano i ruoli, perché alla fine non c’è più distinzione tra chi dà e chi riceve.

Alle 17 rientriamo a casa, giusto in tempo per partecipare, alle 18:30, alla Messa domenicale. La cena viene anticipata alle 19:15, perché domani… si riposa. O quasi. In realtà ci aspetta un “riposo attivo”, molto attivo: la sveglia suonerà alle 3:30 e alle 4 saremo già sui pullman, pronti a percorrere le quattro ore e mezza di strada che ci porteranno fino al confine con il Brasile. Lì ci attende una meraviglia della natura: le imponenti cascate di Iguazú.