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July 10, 2025

Il viaggio che non finisce

Sveva Coda Nunziante

Questa mattina l’aria era diversa. La stanchezza, dopo dieci giorni intensi, si sentiva nelle gambe e negli occhi. Ma sopra ogni altra cosa, si percepiva una malinconia sottile, quella che arriva quando sai che un’esperienza sta per finire. Oggi è il giorno dei saluti, quello in cui stringi le mani per l’ultima volta a chi ha camminato con te: Pascu e il suo gruppo di operai, che ci hanno accompagnato con dedizione nei lavori; le suore, che ci hanno accolto come figli, prendendosi cura di noi con dolcezza e fermezza; e soprattutto i bambini. Quegli stessi bambini che, con i loro sorrisi e i loro occhi pieni di luce, hanno dato senso a ogni fatica, trasformando la polvere, il sudore e le ore sotto il sole in qualcosa che valeva davvero la pena vivere.

Abbiamo lasciato loro un parco giochi nuovo, dove potranno correre e ridere in sicurezza; un’area di svago dove poter montare una piscina così che  l’estate non sarà più solo caldo e noia, ma libertà; un campo da calcio che fino a pochi giorni fa era impraticabile e che ora è un luogo di gioco, squadra, sogni. E ancora, muri che tornano a raccontare colore, spazi che tornano ad accogliere con dignità.

Prima di iniziare l’ultima giornata, i ragazzi hanno condiviso un’ultima riflessione. Il tema, ancora una volta, è stato l’amore. Perché non si esaurisce in una parola, e ogni giorno ne abbiamo scoperto un pezzetto nuovo. Abbiamo parlato di quanto oggi, nell’epoca dei confronti continui e dei modelli irraggiungibili, sia difficile per un adolescente imparare ad amarsi davvero. E allora abbiamo provato a farli ragionare su quanto questa missione sia stata un piccolo esercizio di amore verso se stessi: nel riconoscere la propria capacità di fare il bene, nel sentirsi utili, nel costruire qualcosa che resterà anche quando noi saremo già tornati a casa.

Oggi i lavori sono durati poco. Tutto era ormai quasi concluso, e ci siamo dedicati agli ultimi ritocchi, a mettere in ordine, a curare quei dettagli che fanno la differenza. Poi, alle undici, la serietà ha lasciato spazio alla festa. Giochi, dolci, palloncini ovunque. Abbiamo organizzato delle vere e proprie “olimpiadi” in stile Wecare: gare di tiro alla fune, quiz di cultura generale e staffette con bottiglie forate da riempire il più velocemente possibile. Il cortile era pieno di risate, corse, abbracci.

A pranzo, un segnale chiaro che la fine era davvero vicina: le cuoche ci hanno servito un piatto di spaghetti al sugo. Un sapore che sa di casa. E se di solito, durante il pranzo, i ragazzi si isolano un po’ per chiamare i genitori, oggi invece si sono trattenuti a tavola più a lungo. C’era il desiderio di stare insieme ancora un po’, di non far scivolare via questi ultimi momenti. Si sono raccontati, hanno riso ricordando gli imprevisti e i successi, e si sono dati appuntamento per il futuro.

Dopo un breve rientro in hotel per iniziare a fare le valigie, siamo tornati un’ultima volta alla casa famiglia. Per i saluti, certo, ma anche per la messa finale. Un momento raccolto, silenzioso, di gratitudine. Infine viene letta una lettera ai ragazzi, un sunto del loro percorso, della loro esperienza, almeno ai nostri occhi. L’ultimo esercizio personale è un momento che è diventato tradizione: la lettera a se stessi. Ogni anno, alla fine della missione, consegniamo ai ragazzi un foglio bianco, una busta e una penna. Nessuna consegna precisa, solo una richiesta sincera: scrivete al voi del futuro. Raccontate cosa avete vissuto, cosa avete capito, cosa non volete dimenticare. Scrivete per fissare, per custodire, per non perdere nulla di ciò che è stato.

Infine l’ultima cena (suona solenne, ma non sapevamo come chiamarla..), con una sorpresa che ha fatto brillare gli occhi stanchi: salsicce e patatine fritte. Un piccolo regalo, ma carico di significato. Perché questi ragazzi, partiti da casa con una vita comoda e piena di abitudini, si sono trasformati in dieci giorni in piccoli operai con il cuore grande. Hanno costruito sogni concreti per 13 bambini e 21 ragazze disabili. Hanno portato non solo forza, ma presenza, attenzione, cura.

E noi siamo grati. A loro, per ogni gesto, per ogni fatica, per ogni sorriso regalato. Ma anche a voi, genitori, per averci affidato qualcosa di tanto prezioso: la fiducia di lasciare andare i vostri figli, per scoprire qualcosa di nuovo, e tornare con un pezzo di cuore un po’ più grande.

E forse, tra tutte le cose che abbiamo costruito in questi giorni, quella più importante resta invisibile agli occhi: un nuovo modo di guardare il mondo.

Zheje, Albania - 9/07/2025

 Cari ragazzi,

 La missione è giunta alla sua naturale conclusione. Ancora poche ore e sarete di nuovo nelle vostre case, nelle vostre vite, nelle vostre quotidianità. La bolla fatta di lavoro, risate, silenzi, riflessioni, delusioni, amarezze, gioie si sgonfierà e tutto tornerà come prima… o forse no. Il viaggio mi piace sempre considerarlo come un percorso su due assi paralleli. Da un lato ci sta la parte fisica, quella composta dal lavoro, dalla ripetizione di gesti per completare un’opera di cui forse ancora non vi rendete conto della grandezza. È composta dalla pazienza di cucinare per 80 persone. Dall’amore che avete dato per occuparvi di questi bambini, di quelle ragazze con disabilità. Dall’attenzione nel creare un gazebo. Dalla cura e dedizione nello smontare un posto oramai decadente e pericoloso per lasciare spazio a un luogo in cui sorgerà un parco giochi vero, duro, resistente. Senza di voi i bambini non avrebbero avuto uno spazio per giocare, per essere semplicemente bambini, per dimenticare – almeno per un po’ – il peso delle storie che portano sulle spalle. È composto dallo sforzo di montare un jumping, di scavare e creare un luogo sicuro per affogare nell’acqua limpida di una piscinetta gonfiabile un vissuto estremo. È formato dalla negazione di sé che occorre per pulire dei bagni rotti, intasati, sporchi. Dal coraggio che si necessita per aprirsi all’esperienza del lavoro duro per gli altri. Insomma, è il prodotto di tutti gli sforzi che avete fatto per rendere questo luogo un po’ più casa. L’altro viaggio chiaramente è il viaggio dell’interiorità, lentamente avete dato ascolto a dolori che vi stavano guastando dentro, a ferite che magari ignoravate, un po’ per scelta, un po’ per pigrizia, salvo poi rendervi conto che non farci i conti significa avere all’interno del proprio cuore qualcosa di marcio, in cancrena molto difficile da arginare. Siamo alla continua ricerca di risposte ai nostri innumerevoli perché e come, perché il dolore, perché il male, come devo fare della mia vita, sono abbastanza per essere amato? Abbiamo cercato riflessione su riflessione, passo dopo passo di trovare una risposta ai grandi interrogativi che albergano nel nostro cuore. Ci siamo resi conto che il mondo con le sue strutture e convenzioni non ci offre una risposta soddisfacente alla nostra fame d’infinito.  Leopardi ci parla di un’insoddisfazione che è così profonda da non poter essere appagata neanche dalla terra intera, che il nostro animo e il nostro desiderio sono più grandi e insaziabili di qualsiasi universo possibile. In questa ricerca di noi ci siamo interrogati sulla felicità, cosa è la felicità? sono felice? e inevitabilmente ci siamo scontrati con il mistero del male e della sofferenza.

Abbiamo iniziato a renderci conto che forse le nostre esperienze d’abisso possono diventare luce, perle, splendore nel mondo. Ci siamo iniziati a domandare se dentro di noi magari non ci sentiamo abbastanza, non ci sentiamo adeguati, non ci sentiamo all’altezza, insomma, non ci sentiamo unici. Abbiamo paura di deludere, paura di non essere sufficienti per questo mondo, per i nostri genitori, per gli altri, per noi stessi. E tutto questo rischia di farci marcire, di lasciarci soli, feriti, impauriti, chiusi. Queste ferite ci bloccano, ci impediscono di prendere le decisioni che solo noi possiamo prendere, ci portano a sotterrare ciò che di noi più dovremmo ascoltare, i nostri sogni, le nostre aspirazioni, i nostri desideri. Temiamo di restare soli e di non essere amati e questo ci porta ad essere altro da noi, a vivere una vita che non è la nostra, finta. La salvezza, o almeno noi questo crediamo, viene dall’amore. Ma l’amore è duro, richiede impegno, fatica e dolore. Per amare bisogna sentirsi amati, sentire uno sguardo di amore che si poggi su di noi, che impedisca al mondo di caricarci di aspettative assurde che ci fanno sentire uno schifo, inadeguati, scorretti, che ci fanno disprezzare noi stessi. Il dolore è una spia che ci aiuta a comprendere dove noi ci sentiamo inadeguati, da disprezzare, non amati ed è li che possiamo agire, dobbiamo agire, nel mondo dei SE che ci lasciano con un profondo senso di inadeguatezza. Ma l’amore non si riceve e basta, l’amore si da, l’amore è anche e soprattutto un’apertura. Un’apertura a credere e sentire quanto siamo unici ed amati così come siamo, e un’apertura a donare il nostro cuore, certo, con il rischio che questi venga spezzato, deriso, rifiutato. Se non siamo disposti a rischiare questa apertura però l’inferno si spalanca davanti a noi. C.S. Lewis, grande scrittore della prima metà del Novecento diceva: “Se volete avere la certezza che esso (il cuore) rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno ad un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scrigno – al sicuro, nel buio, immobile, sottovuoto – esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile […] l’unico posto oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e turbamenti dell’amore è l’inferno”.

Ma ora la domanda diventa, cosa dobbiamo fare con tutto questo carico che ci portiamo dentro? Come dicevamo prima, è arrivato il momento di tornare a casa. Quella casa che è porto sicuro, amore, sicurezza, amici. Ma cosa riportiamo a casa noi? Spero, la consapevolezza che voi siete amati, voi siete unici, voi siete necessari… ma non illudetevi, le condizioni che ci attendono a casa non sono cambiate, minimamente. I problemi sono ancora lì, le sfide anche, la famiglia è la stessa, gli amici anche, cosa allora mi posso portare dietro da questo viaggio? Il vostro cuore vale il mondo intero, e sono stato sufficientemente convinto dalla vita che se voi vi prendete sul serio, veramente, senza mentirvi ma impegnandovi a trovare il bello e il buono in ciò che vi circonda, impegnandovi a penetrare nel profondo della realtà che vi circonda, ecco, voi avrete sicuramente un impatto positivo sulla realtà che siete chiamati a vivere, qualunque essa sia. Vi invito a portare con voi il tesoro del silenzio, la consapevolezza che avere uno spazio per voi realmente può cambiare non solo la vostra vita ma anche il mondo accanto a voi. Può aiutarvi a splendere, a essere faro di amore nel mondo. Per concludere, spero veramente che l’unione dei due viaggi che avete condotto con così tanto impegno vi permetta di tornare a casa avendo più strumenti per affrontare il mondo che vi aspetta, avendo più strumenti per compiere il vostro dovere con amore, attenzione e pazienza e soprattutto che vi dia più strumenti per affrontare con gioia, coraggio e fiducia le sfide che la vita vi metterà davanti. Grazie mille del vostro impegno e lavoro e soprattutto buona lettera personale.