0
June 21, 2025

Là dove il poco diventa tutto

Fernando Lozada

La sera prima avevamo avvisato i ragazzi: ci saremmo dovuti svegliare molto presto, un’ora prima del solito, perché c’era ancora tanto lavoro da fare. E invece, durante il pomeriggio e fino a tarda sera, le persone del posto hanno deciso di continuare loro: hanno preso in mano quello che noi non eravamo riusciti a terminare e lo hanno portato a compimento. Questo cambiava tutto: non solo potevamo evitare la sveglia all’alba, ma addirittura concederci di arrivare un po’ più tardi del solito.

Così, questa mattina svegliamo i ragazzi alle 8. Alcuni, pochi ma temerari, si alzano molto prima, spaventati all’idea di essersi persi qualcosa… salvo poi scoprire che avrebbero potuto dormire un po’ di più. Per ragioni logistiche decido di anticipare la messa serale e celebrarla subito dopo il risveglio. È vero, la partecipazione alla messa quotidiana non è obbligatoria — viene chi vuole, e finora devo dire che è stata molto partecipata — ma approfitto del fatto che i ragazzi sono ancora un po’ assonnati e non si accorgono subito che si tratta di una vera messa, e non della solita, breve preghiera del mattino. Almeno… finché non è troppo tardi! Nessuno si lamenta. O meglio, le uniche lamentele arrivano per la sveglia delle 8! E pensare che mi aspettavo sarebbero stati tutti contenti di dormire un po’ di più…

Dopo colazione facciamo un brevissimo briefing in auditorio e poi partiamo verso il campo. Mai, in vent’anni di missioni qui in Perù, avevamo trovato un clima così brutto. A dirla tutta: davvero pessimo. Oggi fa anche più freddo dei giorni scorsi, piove senza sosta per tutta la mattina, e lassù, in cima alla montagna, la nebbia è così fitta che non si vede assolutamente nulla. Ci dividiamo in diversi gruppi per completare le ultime rifiniture del campetto. Intorno, svetta una rete altissima, otto metri, che circonda tutto il perimetro: fondamentale per evitare di perdere una trentina di palloni ogni volta che si gioca, considerando che, se escono dal campo, rischiano di rotolare per 200 metri più in basso. C’è ancora tanto da fare: pulire bene l’area, montare le reti delle porte, dare una mano di vernice a qualche dettaglio.

Facciamo un ultimo pranzo preparato da Patty e dalle altre cuoche del posto, poi ci ritroviamo tutti insieme sul campetto, insieme alle famiglie delle case intorno, per la benedizione e un momento di ringraziamento. È un momento molto sentito. Osservo i ragazzi, e ho l’impressione che non siano del tutto consapevoli di ciò che hanno davvero realizzato in questi giorni.  Sono colpiti dalla bellezza del campo, ma forse non si rendono conto fino in fondo che quel campo lo hanno costruito con le loro mani. Le stesse mani che, a casa, passano ore tra social e videogiochi… oggi, dall’altra parte del mondo, sono riuscite a dare forma a qualcosa di concreto, duraturo, prezioso. Una bellezza che è soprattutto negli occhi dei “vecinos”, che da due anni aspettavano questo momento. Loro, che hanno costruito il muro che sostiene il campo, e che con pazienza e tenacia hanno organizzato attività per raccogliere fondi. Oggi, quel sogno condiviso è diventato realtà.

Non siamo mai davvero pienamente consapevoli della situazione di bisogno in cui vivono queste persone. Un po’ lo intuiamo quando ci ritroviamo a salire quei 500 scalini, e pensiamo alle signore che non arrivano al metro e cinquanta, e che ogni giorno li percorrono portando pesi sulle spalle. Oppure quando immaginiamo i bambini che, per andare e tornare da scuola, li affrontano più volte al giorno. Ma non sono solo gli scalini. È tutta la vita, quassù, a essere più dura. Più faticosa.

Come forse avranno già raccontato i ragazzi, “Nando non lavora” — ed è vero. O meglio: non prendo in mano pale o sacchi di cemento. Vado in giro a fare qualche video, poi mi fermo in cucina davanti al computer per organizzare la logistica quotidiana (e anche quella dei gruppi che stanno per arrivare). E, soprattutto, cerco di nutrirmi della vita delle persone: ascoltarle.

In questi giorni, i ragazzi non smettono di stupirsi per quanto sia buono il cibo qui a Pamplona, nella baraccopoli. Più volte mi è stato chiesto — con un misto di sorpresa e ammirazione — se davvero le persone del posto mangino così tutti i giorni. Si riferiscono sicuramente alle quantità, ma soprattutto alla bontà dei piatti tipici peruviani. D’altronde, è un popolo giustamente orgoglioso della propria cucina: proprio ieri il Perù ha confermato ben quattro ristoranti tra i cinquanta migliori al mondo, conquistando anche il podio per il secondo anno consecutivo! Ma la verità è che qui, a Pamplona, nessuno mangia così ogni giorno. Io lo so, ma voglio approfondire. Così, decido di chiedere direttamente a Patty, la nostra straordinaria cuoca.

Mi racconta che, per esempio, a casa sua la mattina i bambini — ne ha cinque — non bevono latte: costa troppo. La colazione consiste in un panino a testa e una tazza di tè caldo. Se ci sono le possibilità, nei giorni di festa sostituisce il tè con la cioccolata. Le chiedo, ingenuamente, se in quei giorni speciali allora ci sia almeno del latte nella cioccolata. Lei ride e mi dice di no: mette il cacao direttamente nell’acqua calda. E per i bambini, quello basta per fare festa.

Le chiedo del pranzo: se mangiano verdure, proteine. La risposta è semplice: no. Si mangiano lenticchie, fagioli, ceci — o quello che il governo mette a disposizione attraverso le mense popolari, dove con pochi soldi si può avere un piatto caldo. Per “fare volume”, mi racconta, aggiungono patate. “Con sei chili di lenticchie e cinque di patate riesco a cucinare per 90 o 100 persone”, mi dice, fiera della sua abilità e della sua magia quotidiana. “E la carne?” chiedo. Ma carne, pollo — figuriamoci il pesce — sono praticamente assenti dalla loro tavola. “E la verdura?” insisto. Anche quella, troppo costosa. A volte ci si accontenta di un po’ di riso in bianco, o di una zuppa fatta con qualche avanzo di pollo… cioè, gli interni del pollo. La cena? Le chiedo quasi in imbarazzo, rendendomi conto di quanto già sia pesante ciò che sto ascoltando. “Como el desayuno,” mi risponde sorridendo. Come la colazione.

Mi racconta che, a volte, pur di non far sentire la fame ai propri figli, le famiglie li mandano a dormire presto. Meglio farli dormire, che vederli soffrire. Con il tempo, lo stomaco si abitua a mangiare poco, ma male. Poi Patty si commuove e inizia a piangere. Suo figlio ha problemi di crescita: non riesce a prendere peso, ha dieci anni e il fratello di otto lo ha già superato in altezza. “Gli vedo tutte le ossa nella schiena,” mi dice mentre si asciuga le lacrime. Ma subito dopo sorride. “Sono molto grata e fortunata,” mi confida. “Questo lavoro, cucinare per voi, mi dà la possibilità di comprare il latte che il medico ha detto essere fondamentale per mio figlio.” Poi aggiunge, guardandomi con occhi sinceri: “Sai, Fernando, io non mi voglio molto bene. Mi sento spesso inutile, mi sento male con me stessa. Ma voi… voi mi state aiutando più di quanto io stia aiutando voi. Ogni volta che finite tutto, ogni volta che venite a dirmi ‘bueno, muy bueno’, ogni volta che chiedete il bis, o persino il tris… mi fate sentire fiera. Fiera di me. È allora che capisco che valgo anch’io, che anch’io posso fare qualcosa di bello per gli altri.

Dopo la benedizione, andiamo a salutare per l’ultima volta i tre istituti dove, in questi pomeriggi, i ragazzi hanno condiviso tempo, giochi e affetto. È l’ultimo giorno, e qualcuno esprime una preferenza su dove tornare: facciamo il possibile per accontentarli. Ovunque andiamo, ci accolgono con una festa e ci salutano tra le lacrime. È sorprendente quanto ci si possa legare a persone così diverse e lontane da noi, in così poco tempo. Ma forse non è poi così sorprendente: quando ci spogliamo di tutto ciò che è secondario nella nostra vita e rimane solo l’essenziale, allora non possiamo che riconoscerci come veri fratelli e sorelle, l’uno per l’altro.

Torniamo a casa e alle 18:30 facciamo merenda, per poi riunirci alle 19:00 in auditorio. Ci tengo a condividere con i ragazzi la storia di Patty e quella di Jacinta, nella speranza che, giorno dopo giorno, possano diventare sempre più consapevoli della portata di ciò che hanno realizzato, e di quanto sia grande e bello essere loro, che sono chiamati a compiere cose importanti anche a casa, nelle loro vite quotidiane.

Questa sera ceniamo presto, alle 19:30, per avere tutto il tempo necessario per preparare le valigie, controllare che i passaporti siano a posto e, soprattutto, per andare a dormire presto: domani infatti la sveglia sarà alle 6, stavolta per davvero!