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La fame di raccontarsi e di essere ascoltati
Iniziamo la giornata con la nostra preghiera del mattino, tra visi ancora assonnati e ragazzi che arrivano in pigiama. A quanto pare, la preghiera e la colazione non sono altro che il naturale prolungamento del lento risveglio… soprattutto quando, per vari motivi, si sceglie di dormire troppo poco. Alle 08:15 ci ritroviamo in auditorio per introdurre la quarta riflessione personale. Ma prima è necessario fare una breve “chiamata all’ordine”. La notte scorsa, infatti, un gruppo di ragazzi e ragazze ha fatto abbastanza rumore da costringere il responsabile della casa a intervenire. Erano le ore piccole, e il chiasso era tale da impedire il riposo dei sacerdoti – alcuni anziani e malati – che vivono al piano terra.
Cerco allora di far capire che non si tratta solo di una mancanza di rispetto verso la struttura o chi ci ospita, ma che a volte le conseguenze delle proprie azioni sfuggono semplicemente alla consapevolezza. Non perché siano cattivi ragazzi – tutt’altro – ma perché, presi dal momento, finiscono per pensare solo a se stessi, e non a quanti li circondano. Spiego quindi che, se mai la struttura decidesse di non poterci più accogliere a causa di questi comportamenti (e ne avrebbe tutto il diritto), ci troveremmo in seria difficoltà. In questa zona, infatti, non ci sono alternative valide dove poterci trasferire. Sarebbe una grande perdita, non solo per Wecare, ma anche per tutte le persone che qui possiamo aiutare — in un territorio dove c’è ancora tanto bisogno e dove il nostro impegno potrebbe continuare per molti anni. Chiedo anche di pensare agli altri membri del gruppo, che magari desiderano semplicemente dormire e non riescono a farlo a causa del rumore.
Nel frattempo, i ragazzi dello staff – sentendosi un po’ presi in giro – hanno iniziato a far circolare una voce: visto che a qualcuno non interessa dormire, domani per alcuni la sveglia sarà anticipata… alle 5 del mattino! La notizia ha creato un certo allarme: alcuni ragazzi, visibilmente preoccupati, si sono avvicinati a chiedermi “clemenza”, dichiarandosi spontaneamente e pregandomi di non farli correre all’alba. La scena, lo ammetto, mi ha fatto un po’ ridere… ma anche un po’ tenerezza. Perché li ho visti davvero preoccupati. Dopo il richiamo, introduco brevemente la quarta riflessione personale, ancora una volta sul tema del dolore, ma con un cambio di prospettiva: proviamo a metterci dentro l’amore. L’amore come unico “strumento” che abbiamo davvero per dare senso a ciò che ci ha fatto – o ci fa – male.
Non basta dare un nome al dolore, né descriverne con precisione la dinamica o l’impatto. Serve qualcosa di più: serve trasformarlo in qualcosa di più grande, più bello, e, perché no, anche utile. E questo può accadere solo attraverso l’amore e il perdono. Amore che si accoglie, prima di tutto: nei gesti di chi ci cammina accanto, in chi ci ricorda che non siamo soli. E poi amore che si restituisce, trasformandosi in cura e attenzione verso gli altri. Le strade, in fondo, sono due se vogliamo semplificare: quella del perdono, che apre alla vita e alla felicità. O quella della rabbia, che alimenta la frustrazione e ci conduce alla tristezza.
In effetti, uno dei testi che arricchiscono questa riflessione recita così:
“La sofferenza fa maturare una sensibilità particolare che porta a percepire la vita in maniera completamente diversa rispetto al passato. Certamente ci si ritrova essere più fragili, deboli e feriti, però, al tempo stesso, diventiamo più umani, acquistiamo una nuova e più intensa prospettiva. Non ci sono vie di mezzo al cambiamento che il dolore produce nella nostra anima: o ci “umanizziamo”, oppure diventiamo più cattivi. Accogliere e custodire il dolore nella nostra vita spirituale significa raggiungere una consapevolezza e una sensibilità più profonda. Se noi non elaboriamo il dolore che abbiamo vissuto, quella sofferenza marcisce dentro di noi e ci incattivisce, non tira fuori il bene, ma il male, il nervosismo, la frustrazione. Noi diciamo quasi sempre, come se fosse un giudizio morale, “quello è un frustrato“. Ma in realtà la frustrazione viene sempre da un qualcosa di irrisolto, è un’amarezza che ci portiamo dentro e che marcisce fino al punto di gustarci, facendoci diventare ciò che non vorremmo mai essere.”
La giornata era iniziata sotto le nuvole, e con esse il freddo, complice l’assenza del sole. Ma appena un’ora dopo l’inizio dei lavori, il cielo si è aperto e ci siamo ritrovati sotto un sole cocente mentre, terreno dopo terreno, i ragazzi scavano profonde fosse per gettare le fondamenta delle case. È la giornata della pazienza. Perché, come abbiamo raccontato altre volte, mettere le fondamenta è un lavoro di precisione, fatto di tanti piccoli dettagli e molte variabili. Si procede lentamente, e i risultati cominciano a vedersi solo verso la fine della giornata.
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È anche il momento di imparare a conoscersi meglio nei gruppi, che sono del tutto nuovi. E per quanto tempo i ragazzi trascorrano insieme, lavorare fianco a fianco con persone mai incontrate prima significa guardarsi da un’altra prospettiva. Serve pazienza, sì, ma soprattutto una certa sensibilità per cogliere la ricchezza che ciascuno porta con sé.
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Torniamo a casa, come sempre, intorno alle 17:00. Alle 18:30 partecipiamo alla Messa e, poco dopo, alle 19:15, ci ritroviamo tutti in auditorio per dividerci nei gruppi di riflessione. Alcuni gruppi si protraggono fino alle 21:30! È un segno chiaro, come ci dicevamo proprio qualche giorno fa, della fame che hanno i ragazzi: fame di raccontarsi e di essere ascoltati.
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