0
June 20, 2024

La salvezza nella vita è che qualcuno ti guardi e non abbia paura della tua fragilità

Fernando Lozada

Purtroppo, la giornata di oggi non promette nulla di buono dal punto di vista meteorologico, ma le attività iniziano come di consueto. Dopo la preghiera e la prima colazione, oggi riprendiamo il tema delle conferenze, soffermandoci sulla cavità delle paure, in particolare sulla "paura madre", che dal nostro punto di vista è quella di rimanere soli o di non essere amabili.

Analizziamo come tutte le ferite di cui abbiamo parlato nelle precedenti riunioni, gruppi di lavoro personali e conferenze, e tutte quelle situazioni che ci hanno procurato dolore, si siano tradotte in pensieri di inadeguatezza, di “non essere abbastanza”, e di limitare la possibilità che qualcuno ci possa amare. Queste ferite spesso si trasformano nella paura di rimanere soli e di non essere voluti bene. Questa paura assume diverse forme, come la paura di essere un peso per chi ci sta attorno, di non essere mai accolti, e di non poter contare su nessuno.

Sono tanti i sinonimi di questo sentimento che spesso frulla nella testa di noi adulti e, forse soprattutto, degli adolescenti. È importante identificarlo e comprenderne le radici per poterlo affrontare.

Identificare le radici delle nostre paure, senza voler essere banali, significa riconoscere quelle situazioni che hanno alimentato l'idea di non essere amabili o di rimanere soli. Frasi come "io non sono amabile", "io rimarrò da solo", "nessuno mi vorrà mai bene" sono bugie che si nutrono di esperienze in cui ci siamo effettivamente sentiti traditi o soli. La bugia sta nel generalizzare, trasformando episodi specifici, spesso dovuti ai limiti di chi avrebbe dovuto esserci fedele e starci accanto, in una visione assoluta della nostra realtà, per cui si vede tutto nero.

Quando queste ferite diventano la lente attraverso cui vediamo tutto, influenzano anche il modo in cui nutriamo amore per noi stessi e il tipo di rapporti che stabiliamo con gli altri. Non è strano che la grande paura di ogni essere umano sia quella di rimanere solo, di non essere abbastanza, e di non essere amato.

Un lavoro importante che tutti dobbiamo fare è identificare queste bugie “madri” e le loro "sorelle" che hanno rafforzato queste convinzioni nella nostra vita. Essere amati non è qualcosa che dipende da noi, non è una conquista. Se qualcuno ama in noi solo ciò che facciamo, c'è un problema di base. L'amore, almeno per come lo intendiamo e per come lo stiamo vivendo in questi giorni, è qualcosa di gratuito, non è un merito o una conquista. Altrimenti, sarebbe molto difficile immaginare che l'amore possa essere guadagnato e poi perso con la stessa facilità. L'amore non può mai essere qualcosa che si conquista, perché altrimenti entrerebbe nell'ambito del baratto, diventando quasi una merce di scambio. Non possiamo mettere l'amore su questa linea.

Purtroppo viviamo in una cultura che spesso ci fa credere che dobbiamo fare qualcosa per essere amati: “se tu fai così, allora ti vorranno bene”. Questo è delicato perché, se da un lato le nostre azioni parlano di chi siamo e possono renderci preziosi agli occhi degli altri, dall'altro sarebbe ingiusto e tragico pensare che un errore o una mancanza o un fallimento o un nostro limite possa allontanare l'amore delle persone. Crediamo che la paura di non essere amati, per quanto reale, spesso risponde a situazioni irrazionali e a ferite profonde. È importante identificare queste paure e insicurezze affinché non siano esse a dettare chi siamo.

Dopo la conferenza, o breve riflessione se preferiamo chiamarla così, ci prepariamo per la partenza. Partiamo sempre verso le 8:45, come negli ultimi giorni. La giornata, dal punto di vista meteorologico, non promette nulla di buono: piove un po' meno del giorno precedente, ma la differenza è appena percettibile. Tuttavia, i ragazzi sono più carichi di energia, forse perché manca poco alla fine e l'obiettivo di completare tutti i quadranti del campo è vicino.

Il campo ha ormai preso forma: abbiamo già installato una porta e le mura di contenimento sono quasi completate, sia quelle in alto che quelle in basso. Anche oggi, lavoriamo nel pomeriggio. È interessante vedere come i ragazzi dello staff mi dicono che i volontari sono molto motivati e desiderosi di lavorare, anche se con diverse intensità.

Tutta l'esperienza è molto positiva: i ragazzi dicono di essere contenti e di apprezzare il lavoro. Certo, se qualcuno li vedesse nel contesto in cui siamo, con freddo, pioggia e grigiore, potrebbe pensare che siano matti. Nonostante il contesto obiettivamente difficile c'è un aspetto fondamentale che rende questa fatica più sopportabile: il senso del lavoro che stiamo facendo. E questo cambia tutto. Questo è qualcosa che forse dovremmo insegnare a tutti i giovani: trovare un senso più grande in ciò che fanno. Molti giovani non capiscono il senso dello studio, vedendolo solo come un mezzo per ottenere buoni voti, e fanno fatica a percepirne la bellezza. La scuola invece è preparazione, conoscenza e nutrimento per l'anima. Quando si capisce il senso più grande dietro le nostre azioni, queste diventano più belle, nonostante la loro pesantezza, ripetitività o difficoltà. E allora ci ritroviamo ragazzi che ci dicono: “Quanto è bello lavorare.”

L'altro aspetto fondamentale è il lavoro di gruppo. I ragazzi si trovano a fare attività insieme ai loro coetanei, creando una forza collettiva che li sostiene. Sono felici di stare insieme, di fare la catena per passarsi il cemento, di portare insieme una carriola, o di cercare pietre abbastanza grandi per riempire solidamente le mura di contenimento. Fare le cose insieme cambia tutto.

Questo esempio della nostra vita reale dimostra e ci ricorda uno dei pilastri dell’esperienza offerta da Wecare: un lavoro duro con un senso, dove il senso sono le persone che stiamo aiutando, e l'esperienza del gruppo e dell'amicizia che deriva da questa fatica.

Infine arriva il momento del pranzo, tanto atteso dai ragazzi che hanno molta fame, amplificata ancora di più dal freddo. Questo rende il pranzo un momento molto, molto apprezzato. Oggi le signore hanno preparato un piatto chiamato "arroz chaufa", un piatto fusion della cucina peruviana e spagnola, nato dall'emigrazione cinese in Perù. Il "chaufa" è una tipologia di cucina peruviana che mescola elementi della cucina cinese. Il "chaufa" di oggi è un piatto a base di riso, salsa di soia, erba cipollina, peperoncini, frittata di uova, pezzi di pollo, zenzero e altri ingredienti che probabilmente mi sfuggono. Si accompagna normalmente con una salsa agrodolce, che purtroppo non abbiamo potuto preparare, ma il piatto è comunque molto apprezzato dai ragazzi. Non sappiamo se sia solo per il buon sapore o per la grande fame che hanno.

Finito di mangiare, come ieri, visitiamo quattro posti nel pomeriggio, divisi in quattro gruppi. Un delta team rimane a finire il lavoro del campo sportivo. Si potrebbe pensare che nel delta team, quelli che passano tutta la giornata a lavorare come operai, ci siano solo ragazzi maschi, ma in realtà anche ieri un gruppo di 4-6 ragazze ha chiesto esplicitamente di rimanere a lavorare.

Oggi è il giorno dei saluti nei vari posti dove siamo stati presenti in questi giorni, aiutando, portando un sorriso e facendo anche qualche lavoro più fisico e pratico. Salutiamo le persone che ci hanno accolto a braccia aperte, con tanti sorrisi e abbracci. In alcuni casi ci sono lacrime, in altri veri e propri mari di lacrime, soprattutto quando i bambini e le bambine ci hanno preparato piccoli libretti con dediche per i nostri volontari. Questi gesti ci ricordano quanto poco basti per sentirsi amati e quanto ogni cosa che facciamo sia importante. Anche se possiamo essere sostituiti nelle nostre azioni, non possiamo mai essere sostituiti nel modo in cui le facciamo e nel nostro tocco personale che impregna ogni cosa.

Tornati a casa, come ormai da qualche giorno, si gioca la consueta partita di calcetto. Noi organizzatori la temiamo un po', ma allo stesso tempo non ci sentiamo di vietarla, perché rappresenta un bel momento di sfogo e amicizia tra i ragazzi. Tuttavia, la teniamo sempre sotto controllo, sperando che nessuno si faccia male. Senza voler spaventare i nostri lettori, dobbiamo ammettere che ogni volta che c'è questa attività, almeno un “ferito” per missione è inevitabile.

Oggi non erano previste attività di riflessione serali, quindi ci incontriamo direttamente alle 20:00. I ragazzi trascorrono del tempo insieme, cantano, ascoltano musica, e, sotto una leggera censura di alcuni testi di musica moderna, si divertono con canzoni che a loro piacciono. Anche se non si tratta sempre di vera e propria musica, l'importante è stare insieme, chiacchierare, ridere e rilassarsi un po' dopo una giornata di lavoro intenso.

Ceniamo e, dopo mangiato, c'è chi continua a chiacchierare e chi a giocare qualche gioco. Poi si va a letto, pronti per affrontare l'ultima giornata di lavoro a Pamplona. Cominciamo anche a pensare alla giornata libera che ci aspetta e, soprattutto, alla costruzione delle case.

Come chiusura, vi racconto un episodio che fa sia ridere che piangere. Ieri notte, la responsabile della casa di ritiro ci ha scritto per informarci che alcuni dei ragazzi e delle ragazze, morti di fame poverini, avevano forzato una delle finestre della cucina, erano entrati e avevano preso un po’ di frutta. Figuriamoci, non è il fatto che abbiano preso della frutta.. se hanno fame, cerchiamo di venir loro incontro, ma purtroppo hanno forzato la finestra, rischiando anche di tagliarsi con i vetri non proprio di ottima qualità, e hanno preso delle cose senza autorizzazione.

Abbiamo dovuto chiedere ai ragazzi di confessare chi fosse stato. Una quindicina di loro ha ammesso di aver fatto parte del "comitato incursione" della cucina. Probabilmente c'erano più di quindici persone coinvolte, ma non tutti hanno voluto dichiararsi, e va bene così. Non ci piacciono le “cacce alle streghe”.

Questa mattina, prima di fare colazione, questi ragazzi e ragazze hanno avuto una sessione di personal training con Pietro, uno dei membri del nostro staff che da qualche tempo avora anche come personal trainer. Quindici minuti di fuoco per poi avere altri dieci minuti per fare colazione e per riflettere un po' sulla mancanza di rispetto nei confronti dell'istituzione che ci ospita.