"Non ho bisogno di nient’altro per essere felice."
Oggi siamo costretti a partire ancora più presto di ieri. Alle 8:00, anzi già alle 7:45, per la precisione, iniziamo a salire sui pulmini e sulle macchine. Fate voi il calcolo della sveglia! Arriviamo al lavoro per le 8:30. Appena arrivati, ognuno prende in carico i propri compiti e inizia a costruire. Siamo molto indietro con alcune case rispetto ai tempi previsti, mentre su altre siamo molto avanti, quindi c'è lavoro per tutti e si lavora bene in squadra. Almeno, questo è ciò che si vede dall'esterno.
Ogni tanto devo richiamare l'attenzione di tutti e incoraggiarli a continuare a lavorare sodo, perché a volte la tentazione di prendersi una pausa per mangiare l'avocado, le gustosissime granadillas o le banane messe a disposizione dalle famiglie è forte. Queste pause rischiano di passare da 5-10 minuti a mezz'ora, ma devo dire che i ragazzi stanno facendo un ottimo lavoro, sia come squadra che individualmente. Questo ci rende molto fieri e felici per loro, perché stanno vivendo un'esperienza straordinaria.
Purtroppo, il tipo di legno delle case che abbiamo ricevuto questa volta è molto duro, forse a causa della tipologia dell'albero da cui è stato ricavato o perché si è inumidito. In alcuni casi, è davvero difficile da lavorare. Abbiamo quindi dovuto ricorrere a tecniche tradizionali, come tenere i chiodi con una chiave inglese e martellarli fino a piegarli, oppure usare dell'olio da cucina per farli scivolare più facilmente. In alcuni casi, è quasi impossibile procedere. Dobbiamo quindi procurarci un trapano elettrico e un generatore, dato che qui non c'è elettricità, per poter lavorare su quei legni particolarmente resistenti e portare a termine il nostro lavoro.
Con il lavoro costante di gruppo, vediamo le case prendere forma gradualmente. Alla fine della giornata, quasi tutte le case hanno già la struttura del tetto e alcune hanno addirittura iniziato a montare il tetto di più di una stanza. Tuttavia, alcune case sono ancora incomplete, il che ci pone leggermente in ritardo rispetto al nostro piano iniziale.
Questa situazione ci costringe a prendere una decisione drastica: anticipare ulteriormente la partenza di domani alle sei del mattino, in modo da poter finire entro le 12:00. A quell'ora, le famiglie arriveranno per vedere le loro case completate, fare l'inaugurazione e concludere con un pranzo finale con tutte le persone del posto in un'atmosfera di festa, ma, prima di festeggiare, dobbiamo continuare a darci da fare e a lavorare sodo.
Torniamo a casa verso le 19:00, o meglio, le 18:30 tra una cosa e l’altra. Non c'è molto tempo per le nostre attività. Era prevista una riflessione individuale seguita da una riflessione di gruppo, ma alla fine decidiamo di fare solo quella personale e cenare il prima possibile. Durante la cena festeggiamo il compleanno di Gillo e Rocco, che compiono 17 anni, e poi mandiamo tutti a dormire obbligatoriamente entro le 22:00.
Oggi voglio condividere con voi due scene molto commoventi. Una è semplice, l'altra particolarmente toccante. La prima riguarda la signora Julia, per la quale i ragazzi stanno costruendo una casa. La signora Julia ha 69 anni e, quando arriviamo in macchina al nostro campo di lavoro, la vediamo camminare nella nostra stessa direzione. Mancano circa 800 metri al nostro punto di arrivo e lei, un po' curva e con i suoi piccoli passi, arranca e si avvicina faticosamente. Le sue gambe corte e fragili fanno fatica a portarla avanti. Era venuta giù in paese per prendere un po' di pane, quel poco che può permettersi. Ovviamente, non esitiamo a fermarci, stringerci e farla salire in macchina con noi.
Chiacchieriamo un po' con lei e quando le chiediamo come stanno andando i lavori della sua casa, ci risponde felice che stanno andando molto bene e che vede il grande impegno dei ragazzi. Ci dice che ha deciso di chiamare la casa "Mi Sueño", ovvero "Il Mio Sogno". Questa scelta ci colpisce e ci commuove profondamente, perché per noi, e non intendo sminuire il valore di queste case, possono sembrare molto semplici. Ma per lei e per molti altri, queste case rappresentano una benedizione, un luogo sicuro e qualcosa che cambia loro la vita in modo significativo.
La storia più toccante è quella che ci racconta Prisila, una donna di 51 anni. Dieci anni fa, suo marito scomparve all'improvviso. Rispondeva alle chiamate, ma non spiegava mai perché non tornava a casa. Dopo qualche mese, un'altra donna chiamò Prisila per dirle che suo marito ora viveva con lei e che non si sarebbe più preso cura di Prisila né dei debiti che avevano con la banca, più di 2000 soles (circa 500 euro). Inoltre, le disse che non si sarebbe più occupato neanche dei loro figli.
In seguito a questa notizia, Prisila chiese spiegazioni al marito, e si è verificata una situazione che purtroppo conosco bene, essendo a contatto con molte storie simili. Dopo il tradimento del marito, Prisila iniziò a pensare che fosse colpa sua, una reazione comune tra molte donne tradite. Le storie sono complesse e alcune responsabilità si condividono, quindi non dovremmo semplificare. Tuttavia, faccio fatica ad accettare questo continuo auto-incolparsi da parte di molte donne tradite, come se ci fosse qualcosa di sbagliato in loro. Questo impedisce di andare avanti, bloccandole in un circolo vizioso di domande senza risposta: "Perché mi hai lasciato? Cosa ho fatto di male?"
Per Prisila, la situazione è estremamente difficile. Nonostante pensi di essere stata una buona moglie, crede di non essere stata all'altezza e pensa che avrebbe potuto fare di più. Questo la porta a entrare in uno stato depressivo, in cui perde la voglia di fare qualsiasi cosa. I debiti sono troppo alti, e lei è triste, preoccupata e angosciata per i figli, che all'epoca avevano 17, 10 e 8 anni. Non sa cosa fare. Prova ad avviare un negozio, ma le cose non vanno come sperava. Vive una situazione estremamente dura.
A un certo punto, decide di porre fine alla sua vita e a quella dei suoi figli. Compra del veleno, lo mette in una bevanda gassata e porta i figli su una collina poco distante da casa sua (che ci indica). Prima di compiere l'estremo gesto, li scatta loro delle fotografie, piangendo senza sosta. I bambini ignari di tutto, giocano e si guardano intorno. "Mamma, perché piangi?", le chiedono mentre lei continua a versare lacrime. I bambini cercano di consolaria, abbracciandola, ma vedono che non riescono a cambiare la sua tristezza. Prisila sta per prendere la bevanda avvelenata e porre fine alla sua vita insieme a quella dei suoi figli. In quel momento di disperazione, però, arriva un istante di lucidità, un'illuminazione nel suo cuore. Come se Dio - ci racconta - le stesse dicendo di non farlo, che c'era un modo per andare avanti, che c'era ancora speranza. Così Prisila riesce finalmente a fermarsi. Getta via la bottiglia il più lontano possibile e con tutte le sue forze e torna a casa con i suoi figli.
La storia non finisce qui. I mesi successivi sono estremamente difficili. Non riesce a alzarsi dal letto per tre mesi, a malapena riesce a cucinare un pasto al giorno che deve durare almeno per tre giorni. Affronta molte difficoltà, tra cui la mancanza di spiegazioni da parte dell'ex marito sul perché li ha abbandonati. I suoi figli continuano a chiedere del padre, piangendo, mentre Prisila stessa non sa cosa dire loro. Chiede al padre almeno di farsi vivo, di spiegarle qualcosa, di dire qualcosa.
Dopo alcuni anni, finalmente il padre decide di farsi vivo. Un giorno, all'improvviso, appare e propone di portare i bambini a casa sua fino al martedì successivo, che non sarebbe stato nemmeno una settimana intera. Il problema è che una volta superata quella settimana, i due figli più piccoli non tornano più da Prisila, e rimangono con il padre. Passa un anno durante il quale Prisila vive da sola, senza mezzi economici e con il cuore spezzato. È distrutta dal peso dei debiti e racconta questa esperienza di solitudine come una delle più brutte della sua vita, anche più dolorosa della situazione di povertà in cui si trova.
Ora Prisila ha ricevuto una casa ed è molto felice. Dice che già sta pensando a quanto sarà triste quando i ragazzi se ne andranno, perché il loro entusiasmo e i rumori dei martelli e delle varie costruzioni riempiono il villaggio di gioia e vitalità. È profondamente grata per questa nuova opportunità. Ci racconta che finalmente uno dei figli è tornato a vivere con lei, e quello più grande vive non poco distante da lei insieme a sua moglie, in un'altra casa. Ora il figlio avrà finalmente la sua stanza e lei la sua, dopo aver condiviso per tanto tempo lo stesso spazio che fungeva un po’ da tutto.
Concludiamo l'intervista con Prisila, che risponde alla domanda su cosa le manchi per essere felice. Lei ci guarda e con una serenità sorprendente: "Non ho bisogno di nient’altro per essere felice. Sono già felice ora. Ho i miei figli con me, una casetta, non mi manca il cibo e sto lavorando. Che altro posso chiedere?" La sua risposta, considerando tutta la sua storia e la situazione in cui vive, ci sorprende profondamente e ci disarma. Capiamo, o forse non riusciamo a cogliere appieno, la profondità o forse la semplicità con cui affronta la vita. Prisila riflette: "Le cose vanno e vengono. Alla fine, qualcosa di buono arriverà."
Quando chiudiamo l'intervista, ci avviciniamo a lei per ringraziarla e lei ci chiede una sola cosa: "Non giudicatemi per quello che stavo per fare." Piange, e noi non possiamo fare altro che abbracciarla e piangere insieme a lei.