
"Non sei solo"
Quinta giornata di lavoro e la routine mattutina si ripete come da programma. Oggi però fa meno freddo, anche se una pioggia sottilissima, tanto leggera quanto fastidiosa, cade incessante: bagna tutto, si scivola ovunque, e non parliamo delle condizioni in cui versano le nostre stanze.
Dopo la colazione, come sempre, ci ritroviamo puntuali in auditorio. I ragazzi affronteranno la loro terza riflessione personale, e, seguendo il filo conduttore del nostro percorso, è arrivato il momento di parlare del dolore. Tra i testi proposti, c’è anche questo:
“La sofferenza fa maturare una sensibilità particolare che porta a percepire la vita in maniera completamente diversa rispetto al passato. Certamente ci si ritrova essere più fragili, deboli e feriti, però, al tempo stesso, diventiamo più umani, acquistiamo una nuova e più intensa prospettiva. Non ci sono vie di mezzo al cambiamento che il dolore produce nella nostra anima: o ci “umanizziamo”, oppure diventiamo più cattivi. Accogliere e custodire il dolore nella nostra vita spirituale significa raggiungere una consapevolezza e una sensibilità più profonda. Se noi non elaboriamo il dolore che abbiamo vissuto, quella sofferenza marcisce dentro di noi e ci incattivisce, non tira fuori il bene, ma il male, il nervosismo, la frustrazione.” Epicoco - La pietra scartata. Quando i dimenticati si salvano
L’invito è chiaro.. o almeno, speriamo che lo sia. Quando il dolore e tutte le sue conseguenze entrano nella nostra vita, non c’è modo di ignorarlo né di sotterrarlo. Va affrontato, trasformato. È proprio in questa trasformazione che si gioca la nostra pienezza: da essa può nascere la felicità, oppure, al contrario, la tristezza e la frustrazione.
“Non sei mai solo”, lo ripeto con forza ai ragazzi. Continuo a stupirmi di come, dopo vent’anni di missioni, le paure fondamentali dell’essere umano restino sempre le stesse, attraversando indenni ogni cambiamento generazionale. C’è una parte di noi ferita, spezzata, che ci fa credere di essere soli, soprattutto quando stiamo male. E se è vero che ognuno soffre in modo unico, e che fino in fondo nessuno può comprendere davvero il nostro dolore, è altrettanto vero che spesso basta alzare lo sguardo: per accorgersi di una mano tesa, di un orecchio pronto ad ascoltare, di qualcuno a cui importiamo davvero. Il primo frutto della sofferenza, forse il più sorprendente, è proprio questo: scoprire che non siamo soli.
E il secondo, almeno per come la vedo io, è la consapevolezza che non siamo soli perché siamo tutti sulla stessa barca. Quella ferita interiore che ci fa avere paura di rimanere soli, in realtà ci unisce, ci accomuna e ci rende profondamente umani.
E se questo stare insieme si trasforma in una presenza amorevole, allora, in qualche modo, la guarigione comincia. Perché non abbiamo bisogno di qualcuno che risolva i nostri dolori o i nostri problemi, ma di qualcuno che ci resti accanto nelle nostre sofferenze con amore, ricordandoci che siamo preziosi, che non siamo soli, che non siamo definiti solo da ciò che non va.
La giornata di lavoro scorre come le precedenti. Lo spirito dei ragazzi è alto: lavorano sodo, ballano, cantano, si divertono. Non smetto di far notare loro quanto sia incredibile la gioia autentica che vivono e trasmettono, nonostante la fatica, il freddo pungente e l’assenza del sole da quando siamo arrivati… e tutto questo in un luogo che, diciamolo, è tutt’altro che bello. Intanto, il campetto prende sempre più forma, e con lui anche le tribune.

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Dopo pranzo ci distribuiamo nei soliti gruppi degli orfanotrofi e case di accoglienza e restiamo lì fino alle 17.

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Dopo la Messa, ci ritroviamo in auditorio, questa volta solo con le ragazze, per suddividerci nei vari gruppi di riflessione. Ceniamo verso le 20:30 e, dopo il consueto briefing serale e una breve benedizione di padre Gonzalo, andiamo tutti a dormire.
Con la giornata di oggi, abbiamo già vissuto tre momenti di riflessione di gruppo: due con le ragazze e uno con i ragazzi. Al termine dell’esperienza, ognuno di loro avrà partecipato ad almeno quattro incontri di questo tipo. Sono momenti intensi, guidati con cura e attenzione a ogni ragazzo, dove il tempo sembra fermarsi e si crea uno spazio sicuro per aprirsi davvero. Dentro ognuno di loro c’è un profondo desiderio di raccontarsi: di condividere le cose belle, certo, ma anche – e forse soprattutto – ciò che oggi gli fa male. Mi sorprende ogni volta la loro consapevolezza delle proprie fortune. Spesso si sentono quasi in imbarazzo a dire che sentono la mancanza di qualcosa. E in effetti, dal punto di vista materiale o delle opportunità, non manca loro nulla.
Ma basta una semplice domanda: “Cosa ti manca per essere ancora più felice di quanto già dici di essere?” per aprire una breccia. È lì che emergono i desideri più profondi, quelli che si portano nel cuore, più essenziali di tutte le cose belle che già fanno parte della loro vita:
“Vorrei che mio papà passasse più tempo con me.”
“Mio papà mi dà tutto, ma vorrei solo che mi dicesse che mi vuole bene.”
“Vorrei sentirmi visto dai miei genitori.”
“Mi piacerebbe che si interessassero davvero a come sto, e non solo ai miei voti.”
“Vorrei che nella mia famiglia ci fosse più unità.”
“Desidero che smettano i litigi tra mamma e papà.”
“Vorrei non sentirmi un fallimento agli occhi di mia mamma.”
“Vorrei che i miei mi ascoltassero, e provassero a capirmi.”
“Vorrei avere un bel rapporto con mio fratello.”
Non sono frasi inventate. Queste, e molte altre, sono parole letteralmente dette dai nostri ragazzi quando viene chiesto loro: “Cosa ti manca per essere ancora più felice?”
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