Ogni missione pianta un seme che cresce dentro di te: Carla racconta i suoi viaggi con Wecare
Quando parti per una missione, non sei mai la stessa persona che torna.
Le esperienze di volontariato all’estero con Wecare hanno la forza di cambiarti lo sguardo. Ti portano lontano geograficamente, ma ti avvicinano a te stesso come poche altre cose sanno fare. Ti insegnano a guardare con occhi nuovi la tua quotidianità, a riconoscere la bellezza nascosta dietro alle cose semplici, a vivere con gratitudine e apertura verso l’altro. Ti aiutano a vedere meglio: gli altri, te stesso, e ciò che conta davvero.
Queste esperienze difficilmente si dimenticano: restano dentro, si intrecciano con ciò che sei e, a poco a poco, ti aiutano a scoprire ciò che solo tu puoi dare al mondo. Perché c’è qualcosa che puoi fare tu, e solo tu. Ed è insostituibile.
Abbiamo raccolto la testimonianza di Carla, una delle volontarie che ci seguono da più tempo e che, si può dire, ha attraversato il mondo con Wecare e oggi, grazie a ciò che ha vissuto, ha trovato anche la sua strada professionale. La sua è una storia di incontri, di scoperte, di scelte profonde. Una storia che parla a tutti noi.
Il cuore delle missioni è proprio questo: scoprire che ogni incontro può trasformarti e che il mondo ha bisogno di ciò che sei. Quando ti metti al servizio degli altri, capisci che la tua presenza, il tuo sguardo, le tue mani… non sono sostituibili. E questo cambia tutto.
Che hanno significato per te le missioni?
Le missioni sono state come un viaggio dentro me stessa, oltre che nel mondo. Prima di partire, pensi di sapere cosa aspettarti: la povertà, le difficoltà, le ingiustizie. Ma quello che non ti aspetti è il modo in cui le persone che incontri riescono a farti sentire a casa, a farti capire che la ricchezza non sta nelle cose, ma nelle relazioni. Ci sono immagini che non se ne vanno più: bambini che giocano a calcio con un pallone mezzo sgonfio ma con una felicità contagiosa, mamme che condividono il poco cibo che hanno senza pensarci due volte, sguardi profondi che ti entrano dentro. E poi c’è quella sensazione che ti esplode nel cuore quando un bambino ti prende la mano senza dirti nulla, come se fossi sempre stato lì con lui. Sono momenti che ti fanno ridere e piangere allo stesso tempo, perché capisci quanto sia potente l’incontro tra esseri umani. Le missioni per me hanno significato riscoprire il valore della semplicità e della condivisione. Mi hanno insegnato che la felicità non è avere tutto, ma saper vivere con il cuore aperto, proprio come fanno loro.
Due volte in Perù, poi in Romania, Ruanda, Ecuador e quest'anno ti prepari per la tua missione numero 6, questa volta in Camerun. Cosa ti spinge a farlo?
Ogni volta che torno a casa dopo una missione, mi accorgo che una parte di me è rimasta lì, in quelle terre, con quelle persone. È come se la missione ti piantasse dentro un seme che continua a crescere, e prima o poi senti di dover partire di nuovo. Non perché “serva”, ma perché hai bisogno di ritrovare quella verità che solo certi luoghi e certe esperienze sanno darti. Mi spinge la voglia di rivedere quegli occhi pieni di luce, di imparare ancora da chi ha molto meno di me, eppure ha capito il segreto della felicità. Mi spinge la voglia di mettermi in gioco, di vivere davvero invece di lasciarmi trascinare dal tempo e dalla routine. E poi c’è quel senso di famiglia che nasce nelle missioni: persone che non parlano la tua lingua, che hanno una vita completamente diversa dalla tua, eppure dopo pochi giorni sembra che vi conosciate da sempre. Questo è il vero miracolo delle missioni: ti fanno sentire parte di qualcosa di più grande.
Perché pensi sia importante che i giovani facciano esperienze di questo tipo?
Perché ti ribaltano la prospettiva. Ti fanno capire che il mondo è molto più grande di quello che vedi ogni giorno, e che c’è tanto da scoprire fuori dalla tua comfort zone. Siamo abituati a dare tutto per scontato: l’acqua che esce dal rubinetto, il cibo nel frigo, la connessione internet sempre disponibile. E poi arrivi in un villaggio dove i bambini fanno chilometri per riempire un secchio d’acqua, e capisci quanto sei fortunato. Ma la cosa che colpisce di più non è la povertà. È la gioia che c’è nonostante tutto. I bambini che giocano con niente eppure ridono come se avessero il mondo tra le mani. Le famiglie che hanno poco, ma condividono tutto. È una lezione di vita che nessun libro o documentario potrà mai insegnarti. Ai giovani serve questo: esperienze che li facciano sentire vivi, che li facciano uscire dalle abitudini e dai pensieri automatici. Serve il contatto umano vero, fatto di sguardi e di mani strette forte. Serve vedere con i propri occhi che il mondo ha bisogno di più persone disposte ad ascoltare, a capire, a dare una mano senza aspettarsi nulla in cambio.
Credi che in qualche modo queste esperienze ti abbiano indirizzato nella scelta professionale?
Senza dubbio. Perché dopo aver vissuto certe cose, non puoi più guardare il mondo con gli stessi occhi. Ti rendi conto che non vuoi solo un lavoro per vivere, ma un lavoro che ti permetta di lasciare un segno, anche piccolo. È anche grazie alle missioni che ho capito di voler diventare medico. In quei luoghi, dove spesso mancano le cure più basilari, ho visto quanto possa fare la differenza anche un semplice gesto. Ho capito che la medicina non è solo una professione, è una forma di servizio, di vicinanza, di amore concreto. Le missioni mi hanno insegnato che qualsiasi cosa tu faccia può essere un modo per aiutare qualcuno. Non serve essere medico, insegnante o missionario di professione: basta fare il proprio lavoro con la consapevolezza che ha un impatto sugli altri.
Mi hanno fatto capire che voglio che la mia vita abbia un senso più grande di me stessa. Che voglio costruire qualcosa che resti, che possa in qualche modo restituire almeno un po’ di quella ricchezza umana che ho ricevuto in quei giorni tra i bambini, tra le famiglie, tra le storie di vita vera. Quando ti trovi davanti a persone che non hanno nulla ma ti ringraziano con un sorriso solo perché ti sei preso cura di loro, capisci che questo è il senso più profondo del prendersi cura: esserci, con competenza, ma anche con cuore.
Essere medico per me significa questo: portare cura dove ce n’è più bisogno, restituire dignità attraverso la salute, essere strumento di qualcosa di più grande. E tutto questo non l’ho imparato sui libri… l’ho imparato nei sorrisi, nella polvere, negli abbracci delle missioni.