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June 20, 2025

Quando la fatica non pesa, perché ha un senso: fare qualcosa di bello per gli altri

Fernando Lozada

Dopo la prima colazione, come ormai accade quasi ogni giorno, ci ritroviamo in auditorio. Il compito di oggi è la quarta riflessione personale. Se ieri ci siamo confrontati con il tema della sofferenza e del male — realtà di fronte alle quali non si può restare neutrali, e che, a seconda di come e con chi le attraversiamo, possono trasformarsi in una risorsa preziosa o in una condanna — oggi ci soffermiamo sulle conseguenze di queste ferite.

Riflettiamo su come uno sguardo limitato, marginale e spesso non vero su noi stessi possa condizionare i nostri atteggiamenti. E su come, pur di colmare quel vuoto, rischiamo di adottare comportamenti che non ci appartengono davvero.

“Sono le ferite intime, quelle dell'affettività, che sono profonde, sono dentro, sono nascoste. Che forse non hai mai detto a nessuno. Sono quelle cose per cui uno non si sente normale. È un pensiero inconfessato che è diventato un intimo disprezzo di sé per le proprie incompletezze, spesso immaginarie. Sono successe cose che fanno ancora sanguinare. Ferite relazionali, che toccano il mondo dell'affettività e della propria identità. I luoghi dove si è tortuosi, contraddittori, impacciati, impauriti, timidi, bloccati, sfuggenti, delusi, disperati oppure immotivatamente aggressivi, possessivi, violenti, invidiosi, prepotenti, consumati dal rancore. Perennemente incerti. O perennemente allarmati e quindi perennemente in guerra. Frenati. O disgustati di sé. I luoghi dove si perde sangue. Dove la vita si svuota. Mille ansie ci possono possedere; paure di tanti tipi o insensibilità, freddezze per errori subìti o disattenzioni ricevute, si può essere qualcuno a cui tutto resta estraneo, che non s'innamora, non si coinvolge, non ha passione, perché si convive con un io affettivo incarcerato dentro barriere di autodifesa che sono diventate una gabbia. Bisogna fare un viaggio un po' doloroso. I sintomi e i dolori sono un sistema di sicurezza del corpo e dello spirito. Senza dolore non ci si cura. Senza sintomi è difficile scoprire la malattia. Si possono fare vari errori. I principali sono due. Il primo è quello di non ascoltare il dolore. Tanta gente si rovina la vita perché si abitua al dolore, mentre i dolori vanno ascoltati. Il secondo, ugualmente grave: assolutizzarli dimenticando il fatto che siano segnale di qualcos'altro, combattere per toglierli e non andar oltre. Eliminare il dolore e fermarsi lì.”

Fabio Rosini - L’arte di ricominciare

L’invito di oggi è provare a riconoscere come traduciamo le nostre ferite, le nostre mancanze. In che modo tentiamo di soffocare il dolore, spesso rinunciando a essere davvero noi stessi. E come cerchiamo di colmare il vuoto lasciato dal dolore con cose che non durano, che non sono salde, che passano…fino a ritrovarci a più vuoti di prima.

Oggi è praticamente l’ultimo vero giorno di lavoro — o almeno, questa è l’idea — così da poter dedicare la giornata di domani alle rifiniture e all’allestimento per l’inaugurazione del campetto. Tutto però dipende dal raggiungimento dell’obiettivo di oggi: completare il cemento nelle aree ancora scoperte e terminare le tribune. Ed è proprio sulle tribune che siamo più indietro: c’è ancora tanto da fare.

Mentre i ragazzi lavorano, decido di intervistare una delle signore di questa zona di Pamplona, che porta il nome di “Peruanidad” — un termine che potremmo tradurre come “peruvianità”. Jacinta, fin dal primo giorno del nostro arrivo, ci dà una mano in cucina. Insieme ad altre sei donne, ogni giorno ci prepara piatti tipici della cucina peruviana, che sono davvero eccezionali.

Quando le chiedo cosa significhi per lei il campetto che stiamo costruendo, si commuove fino alle lacrime. Ci racconta che spesso non riesce ad accompagnare i suoi figli nei campetti che si trovano lontano. Non se la sente di lasciarli andare da soli, e così, molte volte, i bambini devono rinunciare a giocare: perché la mamma è impegnata con il lavoro, o semplicemente perché le faccende di casa non le permettono di uscire.

Si emoziona all’idea che, tra poco, i suoi figli non saranno più costretti a rinunciare al gioco, perché avranno un campetto a pochi passi da casa. Si commuove ricordando come tutto questo sia diventato possibile: i tanti weekend di lavoro condivisi con gli altri vecinos, per costruire il muro di contenimento e livellare il terreno dove oggi sorge il campo. Conclude l’intervista ringraziando i ragazzi, ma anche i loro genitori, per aver permesso loro di venire fin qui ad aiutare. Li elogia con affetto, sottolineando quanto siano stati bravi e dicendo che oggi, giovani capaci di donarsi così generosamente agli altri, non se ne trovano molti.

All’ora di pranzo è tempo di fare i conti con l’avanzamento dei lavori. Decidiamo che uno dei tre pullman resterà al campo, mentre gli altri due partiranno per raggiungere gli anziani e i bambini. Nasce così il “Delta Team”: 23 dei 32 ragazzi rimangono sul posto, mentre le nostre 49 ragazze e i 9 ragazzi restanti si dividono tra i due istituti.

Il gruppo che resta lavora con grande impegno e costanza. Paradossalmente, essere in pochi sembra aumentare l’efficienza: ognuno dà il massimo e si sente protagonista della missione. Si aiutano, si prendono in giro, lavorano con gioia. C’è un clima incredibilmente positivo, quasi festoso. E questo, come dicevo nei giorni scorsi, continua a sorprendermi: perché se si riesce a mantenere uno spirito di festa anche in mezzo alla nebbia, alla fatica e al freddo, allora vuol dire che ciò che li muove — la compagnia, il senso di quello che fanno — è qualcosa di davvero grande. E importante.

C’è un’altra cosa che continua a sorprendermi. Appena rientro a casa, la prima cosa che faccio è una doccia calda. Poi, quasi in modo militare, infilo maglietta, felpa e giacca: sento freddo e ho solo voglia di scaldarmi. Esco nel chiostro, e ovviamente i ragazzi — che vivono al limite con i minuti — non vanno subito a farsi la doccia. Aspettano il minimo indispensabile. E così mi ritrovo davanti 32 adolescenti: metà in maglietta, metà a petto nudo, che giocano a calcio come se niente fosse, dopo una giornata intera di lavoro pesante, da veri operai. Io potrei già andare a dormire. Loro, invece, potrebbero restare lì a calciare quel pallone per ore. E vi assicuro che non solo hanno lavorato molto più di me… ma, con ogni probabilità, hanno anche dormito meno la notte scorsa.

Dopo la messa ci dividiamo per i gruppi di riflessione maschili. Sono sempre il primo a dire che noi uomini siamo più semplici — o forse meno complicati, a seconda dei punti di vista. E ammetto anche che non ci piace parlare troppo; raccontarsi è una vera fatica! Perciò resto molto sorpreso quando, sia oggi che due giorni fa, almeno due dei quattro gruppi di riflessione si prolungano ben oltre l’orario previsto, arrivando a superare anche due ore di chiacchiere intense.

La serata si chiude con una festa: dopo cena, celebriamo i 15 anni della nostra Bianca con una squisita torta al cioccolato!