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June 18, 2025

Quando le nostre ferite diventano oro

Fernando Lozada

Oggi fa più freddo del solito, e questo rende il risveglio ancora più difficile. Il rituale del mattino è sempre lo stesso, e alle 8:15 ci ritroviamo tutti in auditorium per la seconda conferenza del nostro percorso.

Affrontiamo un tema tanto tosto quanto complesso da approfondire, uno di quelli che spesso evitiamo di affrontare nella vita di tutti i giorni.. forse perché ci mette a disagio, forse perché preferiremmo sotterrarlo e non pensarci più: l’esistenza del male e della sofferenza.

Ci vorrebbe probabilmente un intero libro per affrontare fino in fondo questa tematica e, anche se ci fosse, forse non basterebbe. Eppure, parlarne viene quasi naturale, soprattutto nel contesto che stiamo vivendo in questi giorni. L’esperienza della sofferenza, del dolore, della mancanza… è tangibile. La percepiamo con tutti i sensi: è lì, davanti ai nostri occhi.

Viene spontaneo allora chiedersi: com’è possibile che, se l’essere umano è chiamato a una felicità infinita, a una vita piena di senso, a un’esistenza dove il bene, il bello e il vero hanno l’ultima parola, ci ritroviamo così spesso immersi in una realtà che sembra smentire tutto questo? Una società dove il male sembra avere la meglio, essere più presente, più abbondante. Basterebbe accendere il telegiornale o sfogliare un quotidiano per percepire una sensazione diffusa: sembra che tutto stia andando a rotoli.

La realtà del male e della sofferenza ci parla di una dimensione profonda della nostra esistenza: quella del limite, della nostra insufficienza. Siamo esseri finiti, e un giorno la nostra vita avrà una fine. Non di rado, come esseri umani, scegliamo il male al posto del bene, mossi da logiche egoistiche, fini a sé stesse. Eppure, il nostro cuore è fatto per qualcosa di più grande. È nel compiere il bene, nell’amare, che trova la sua pienezza. Ma a volte sembriamo dimenticarlo, e ci ritroviamo a scegliere ciò che ci allontana da quella verità per cui siamo stati creati.

Certo, non siamo noi gli artefici dei grandi mali del mondo, e ancor meno lo sono i ragazzi che abbiamo davanti. Ma questo non significa che il male non tocchi anche le nostre vite. Lo compiamo ogni volta che ci consideriamo poco importanti, che ci facciamo del male da soli — cadendo nei vizi tipici del nostro tempo, nelle abitudini che ci svuotano. Facciamo il male quando non ci accorgiamo di chi, vicino a noi, ha bisogno di una presenza, di un gesto, di qualcuno. Lo facciamo quando feriamo chi ci ama, chi vorrebbe solo prendersi cura di noi. E ogni volta che operiamo il male, alimentiamo una ferita profonda, che abita la nostra interiorità e ci fa credere, a volte senza un motivo chiaro, che non siamo abbastanza, che non siamo amabili, che forse, un giorno, resteremo soli.

L’adolescenza, da questo punto di vista, è un periodo particolarmente delicato. Tutto sembra ingigantito, amplificato: le emozioni si vivono con un’intensità che spesso trasforma ogni evento in un vero e proprio dramma.

Penso a tutti quei ragazzi che cercano felicità e gioia nelle notti infinite di sballo — e non lo dico in modo moralistico — abusando di sostanze che anestetizzano, così diffuse nella nostra società. A volte mi domando se ciò che ci fa davvero bene non dovrebbe invece renderci più vivi, più presenti, più capaci di donare e amare. Al contrario, alcool, droghe e altre dipendenze ci imprigionano, ci rallentano, ci allontanano da quella versione di noi stessi pronta ad aiutare gli altri, a essere quella persona di cui qualcuno ha bisogno.

Pensiamo a tutti quei giovani, spesso ragazze, vittime di disturbi alimentari o di altre forme di autolesionismo. O a quei ragazzi che hanno perso la speranza nella vita, forse perché qualcuno li ha maltrattati, e non c’era nessuno accanto a loro a ricordare quanto sono preziosi, tanto preziosi.

Chi ha subito violenza, e anche chi l’ha perpetrata, porta dentro di sé profonde ferite. Ma cosa possiamo fare con la sofferenza, con le nostre ferite e il nostro dolore? Ai ragazzi parliamo delle perle — pietre preziose, simbolo di valore — nate proprio da una ferita. Come a dire che ogni ferita, se “tutelata” e accolta con amore, può trasformarsi in qualcosa di unico e prezioso. Parliamo anche del Kintsugi, l’antica arte giapponese che ripara gli oggetti rotti utilizzando l’oro per evidenziare le crepe. Questo gesto non nasconde la rottura, ma la celebra, mostrando l’unicità di ogni pezzo e di ogni crepa dorata. Così è per ciascuno di noi: siamo “rotti” in modo unico, e le nostre crepe non devono essere nascoste, ma guardate come veri tesori, perché sono ciò che ci apre alla capacità di amare e di sentire empatia verso gli altri.

Concludiamo con il consueto invito a fermarsi a riflettere: Quali tipi di male opero nella mia vita? In che modo le mie azioni mi allontanano dal bene e mi fanno del male, e perché? E soprattutto, cosa desidero fare delle mie ferite, delle mie paure?

Oggi sul nostro cantiere fa particolarmente freddo e la nebbia avvolge tutto. Mentre ieri, al nostro arrivo, la nebbia si era già diradata, oggi la visibilità non supera i dieci metri. Ogni volta che i ragazzi si prendono una pausa, anche breve, devono indossare le felpe, perché appena smettono di muoversi e di produrre calore, il freddo si fa sentire in modo davvero intenso. Il lavoro continua senza sosta, e il campetto sportivo prende forma giorno dopo giorno, così come tutto ciò che lo circonda: le tribune e le mura di contenimento.

Dopo pranzo ci dirigiamo verso i tre istituti che ci accolgono fino alle 17. Uno di questi si chiama Sembrando Esperanza. Qui vengono accolti gli ultimi: uomini, e qualche donna, trovati per strada dai volontari, spesso privi di qualsiasi tipo di cura, sia del corpo che dello spirito.

Persone abbandonate a se stesse, senza più nessuno in vita o forse incapaci di vedere chiunque, immerse nella miseria più estrema, letteralmente buttate via sulla strada. In questo luogo trovano accoglienza: ricevono un pasto, un letto caldo e le cure mediche di cui hanno bisogno. Molti non hanno mai frequentato la scuola, così qui iniziano la scuola primaria: un gesto che può sembrare simbolico, ma che rappresenta soprattutto un modo per riacquistare la dignità che la strada sembrava aver loro tolto. Ci sono quelli che hanno perso la ragione, chi presenta gravi ritardi, chi non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto: tutta la miseria e la fragilità della nostra umanità si manifesta qui, in modo concreto e toccante. Ed è proprio in questo spazio che vengono i nostri ragazzi, tutti maschi, vista la natura del centro.

Qui i nostri ragazzi cercano di rendere il luogo più accogliente, passando qualche mano di vernice qua e là, ma soprattutto portano gioia e, in qualche modo, speranza. Si relazionano con queste persone come si fa con un amico, senza i filtri e le barriere che spesso noi adulti ci costruiamo. Quasi inconsapevolmente, si mettono in gioco con chi ha vissuto, sembra, mille vite diverse e che, tra errori e sofferenze, custodisce molteplici lezioni di vita. L’importanza del perdono, il valore delle amicizie autentiche, e in molti casi anche la presenza di Dio: sono solo alcune delle riflessioni che emergono in questi incontri profondi.

Tornati a casa alcuni dei ragazzi (in realta alcuni sta per una cinquantina di loro) Poi, tutti i maschi si riuniscono in auditorio, dove ci dividiamo in gruppi per vivere un momento di riflessione e condivisione.