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July 27, 2023

Speriamo che questa casa sia solo un inizio e un segno di speranza per il futuro

Fernando Lozada

Oggi è la giornata in cui ci siamo svegliati prima rispetto a tutte le altre mattine (tranne il giorno della partenza da Roma a Milano e del rientro a casa): la sveglia è alle 5:50. Così alle 7:15, dopo aver fatto la foto di gruppo, che è una tradizione alla fine dei nostri viaggi, possiamo finalmente partire verso le nostre zone di lavoro.

Vogliamo sfruttare tutta la giornata e dedicarla ad ultimare le case. Purtroppo questo ritardo non è dovuto ai ragazzi ma ad alcuni errori di costruzione che ci sono stati da parte degli operai/falegnami che li hanno affiancati. C’è da dire che queste case sono più difficili e diverse rispetto a quelle che facciamo in Perù: le pareti e le varie parti della casa sono più grandi e dunque più pesanti, ci sono da costruire da zero le palafitte e il pavimento, il tetto si fa ad un’altezza di 3/4 metri. Dunque non serve solo abilità nel martellare ma anche un buon equilibrio e non soffrire di vertigini. Partiamo quindi molto presto sperando che questo basti per completare le case, anche perché vorremmo fare la benedizione con le case complete. Alla fine della giornata le case vengono terminate, anche grazie all’aiuto degli operai che ci accompagnano. Purtroppo vengono terminate solo 10 delle 12 case, le altre due non vengono completate nei tempi (manca ancora la metà del tetto), ma i ragazzi portano a casa un risultato importante: se non fosse stato grazie a loro tutti i pezzi delle case non sarebbero mai arrivati in un posto così angusto e sperduto. Già dalla mattina, dunque, abbiamo cominciato con la benedizione delle varie case e abbiamo ascoltato le parole di ringraziamento delle famiglie beneficiarie, e allo stesso tempo i ragazzi hanno augurato con tanto amore a ciascuna famiglia di avere una vita piena, serena e felice e sperano che questa casa sia solo un inizio e un segno di speranza per il futuro, soprattuto per i più piccoli.

Iniziamo la benedizione da parte di don Tommaso della zona delle 5 case, chiamata “Vaca”, partiamo dall’alto fino ad arrivare in basso. Non appena finiamo, raggiungiamo la zona delle 7 case, “Envidia”, partiamo sempre dalle case più in alto (devo dire che qui la salita è molto più faticosa). Ci scambiamo bellissime parole di affetto, abbracci e cadono tutte le barriere (soprattutto quelle della lingua e della timidezza: gli ecuadoriani, come già detto, sono persone che hanno difficoltà a esprimersi). Non appena finite le benedizioni, visto che alcune case andavano terminate, rimaniamo a lavorare fino alle 18:00. E si rientra a casa verso le 18:30.

Accade qualcosa di particolare perché, dovendo partire alle 4:00 del mattino, per non creare troppo scompiglio a quell’ora e per non dividere i pullman tra maschi e femmine, decidiamo di dire ai ragazzi che, chi voleva, avrebbe potuto aspettare fino alle 4:00 del mattino qui nell’alloggio delle ragazze portandosi dietro le valigie. Così verso le 19:00 su 39 ragazzi (perché uno è partito questa mattina) 33 si portano le loro valigie aspettando l’arrivo dei pullman che ci porteranno all’aeroporto di Quito.

Alle 19:00, dopo aver dato qualche indicazione sulla partenza, leggiamo ai ragazzi la seguente lettera:

Cari ragazzi,

Dal 2012 alla fine di ogni missione è usanza rivolgervi una lettera. Quest’anno per vari motivi legati alla logistica e il tempo dovrò essere più breve, cosa che sicuramente non vi dispiacerà, cercando di andare all’essenza di quanto credo sarebbe bello ricordare tra tutto ciò che avete vissuto in queste due settimane, che non so voi ma per me sono volate.

Ci tengo a evidenziare, insistere, che quanto avete fatto in questi giorni è qualcosa che ha toccato e continuerà a toccare l’esistenza di tante persone, avete cambiato la loro vita. Quelle stesse persone che all’inizio di quest’avventura dovevano essere al centro dei nostri sforzi, soprattutto quando le forze venivano a mancare, quando il caldo e la fatica erano così forti, quando dovevamo scaricare dei camion pieni di materiale pesante e portarli in cima a colline di cui non ci aspettavamo le dimensioni. Si è vero, non erano proprio montagne, ma non erano neanche delle semplici collinette, anzi. E quello che non si è riuscito a finire, e che comunque sarà portato a conclusione, non è per colpa vostra. Forse l’unica domanda che vi chiederei di farvi è che atteggiamento avete avuto nei momenti di stallo: da protagonista che cerca soluzioni, o da spettatore? In ogni caso, ci tengo a ricordarvi nel caso non vi fosse sufficientemente chiaro: avete dato una speranza a tante persone. Intervistando le famiglie ho conosciuto due bambine, entrambe vogliono fare il medico, e non per fare tanti soldi, ma perché vorrebbero guarire le persone. Ho intervistato madri e padri che dichiaravano di essere felici, ci credete? Vivono cosi senza niente e si dicevano felici? Ben consapevoli di tutto ciò che a loro manca, ma ben consapevoli anche che ciò che determina loro felicità è l’esperienza di stare insieme e di volersi bene.

Nella vita credo che tutto ciò che fa la differenza è il come e il perché si vivono le cose. Non dico che la fatica sia minore, o che la percezione del caldo e dell’umidità non ci siano stati, ma sono convinto che il modo, lo spirito con cui facciamo le cose e le affrontiamo, sia in grado di darci una marcia in più e vivere quanto ci capita con tutta un’ altra prospettiva. E cambia tanto quando le cose le fai per qualcun altro, in un’ottica più ampia.

Ricordo di aver visto diversi atteggiamenti nel portare le pesanti pareti su per la collina il primo giorno delle case. Sole che scotta, caldo, umido, salita lunga e ripida. 8 o 10 persone per portare un pezzo enorme di legno. Ricordo di aver visto interi gruppi lamentarsi, ovviamente lamentele giustificate ma che partivano prima da alcuni pochi e che poi contagiavano tutto il gruppo. Potrei azzardarmi a dire che hanno fatto più fatica di un gruppo che stava dietro di loro, fatto, almeno all’apparenza, di persone più deboli fisicamente, ma che si facevano il tifo a vicenda, direi anche con il sorriso… e qui mi azzardo a dire che hanno sicuramente fatto meno fatica, o meglio, l’hanno percepita molto meno.

E su questo vorrei fare un collegamento con tutto ciò che ci blocca nella vita, con tutto ciò che non ci lascia andare avanti, su tutte le paure che, per quanto insostenibili razionalmente, emotivamente sono a tutti gli effetti delle catene che non ci lasciano essere liberi e in pace con noi stessi.

Nelle determinate circostanze della vita ci si presenteranno sempre due strade e due modi di affrontare le cose: o da schiavi o da uomini e donne libere. Essere schiavo vuol dire lasciarsi trascinare dalle circostanze, subirle, e lasciare che esse condizionino il nostro stato di animo, la nostra voglia di fare, addirittura condizionando lo sguardo che abbiamo su di noi e su tutta la nostra storia, che è la cosa più drammatica. È quando nella nostra vita il comando è in mano agli idoli che ci siamo costruiti o che la società ci ha messo davanti. Schiavi dei nostri capricci, del nostro negativismo, schiavi del vittimismo, e la lista potrebbe essere infinita… in fin dei conti chi vive così vive da schiavo.

Invece se le viviamo da uomini e donne libere, cioè quando siamo noi i signori della nostra storia, non la subiamo ma la viviamo, anche quando le circostanze sembrano avverse. Non stai al di sotto di quanto ti accade ma al di sopra, e per quanto un’esperienza possa essere dura o di sofferenza, se questo non intacca la consapevolezza di chi tu sei, essa diventa momento di crescita, opportunità a tutti gli effetti per venire fuori per quello che sei veramente, nella tua parte più bella e buona. Perché non sono gli eventi, buoni e negativi, a determinare chi tu sei, ma è il chi tu sei a determinare come essi vengono vissuti. Tu sei sempre il protagonista della tua vita, sei chiamato a esserlo, altrimenti sopravvivi, non vivi. E parte tutto dall’atteggiamento, dal non perdere la speranza, dal non pensare che il male abbia l’ultima parola o che non ce la puoi fare. Noi cattolici crediamo, o quanto meno dovremmo, che Dio non è un ente che si disinteressa della sua creatura, ma lo nominiamo come un Padre amorevole, un Padre che sì è autorità ma è anche infinita Misericordia, un Padre che rispetta la nostra libertà, perché l’amore vero fa così, e rimane fedele al suo amore per noi senza che gli importi quanto noi facciamo. Ecco se è vero tutto ciò, dobbiamo credere che niente, nessuna delle prove nella nostra vita, potrà mai essere più grande delle nostre forze, di quanto tu puoi caricare. Nulla, veramente nulla, sfugge allo sguardo amorevole di Dio. Il che non vuol dire che non ci sarà la sofferenza, ma vuol dire che ce la puoi fare, perché fondamentalmente non sei solo, non sei sola. L’avete visto quando avete parlato delle vostre paure, non siete soli, le condividete, potete fare strada insieme. E prima o poi mi auguro che sperimenterete che oltre tutto l’amore umano che vi circonda, c’è anche un amore divino più grande di cui l’amore umano è un timido riflesso.

Sai quando lasci che sia il male ad avere l’ultima parola: quando cedi al cercare colpevoli, quando ti lamenti, quando non ti muovi più e aspetti che qualcosa accada, quando non affronti le tue responsabilità, quando pensi che è la fine del mondo se hai sbagliato o se hai sofferto. E soprattutto quando tutte queste paure o sentimenti di inadeguatezza creano in te un’idea per cui tu pensi di non andare bene, e guardi con queste lenti tutta la realtà: la tua e quella di chi ti sta accanto. Non possiamo vedere la vita, la tua esistenza, con la lente delle nostre ferite e le nostre insicurezze. Esse non possono avere l’ultima parola. Se qualcuno ti ha tradito, non è vero che tutti prima o poi ti tradiranno. Se qualcuno ti ha lasciato nella vita, non è vero che tutti ti abbandoneranno. Se qualcuno non ti ha dato valore o ti ha usato per i suoi fini, non vuol dire che tu non ti possa più fidare di nessuno ma soprattutto non vuol dire che non sei amabile o che non sei prezioso. Se nella tua vita l’esperienza dell’amore è stata fatta di rotture, non vuol dire che il tuo cuore non possa desiderare qualcosa che duri per sempre, anzi il cuore di ogni uomo e ogni donna ha un timbro di eternità, ha bisogno di un per sempre, che ci consegna serenità, che ci da stabilità, che ci salva in fin dei conti perché sai che c’è qualcosa che rimane anche quando tutto sembra andare a rotoli.

Se pensi che non sei degno di amore, caccia questo pensiero, non è così. Se pensi che non basti, caccia questo pensiero, non è così. Se pensi che c’è qualcosa in te che è da buttare, o che sei tutto o tutta da buttare, caccia questo pensiero, non è affatto così. Niente della tua storia della tua vita può essere sprecato perché ti serve tutto. Tutte le cose belle che ti hanno dato stabilità e sicurezza, ma anche tutte quelle cose meno belle, proprio brutte, che ti hanno forse fatto toccare il fondo ma che poi, se c’è stato l’amore, sono fonte e sorgente di una forza nuova, di uno sguardo nuovo sulla vita, sul senso della tua vita, su chi tu sei e ti rendono capace non soltanto ad affrontare altri dolori ma a prenderti cura del dolore degli altri che è qualcosa di spettacolarmente bello e necessario in questo mondo.

Non sprecate la vostra vita, non sprecate il vostro tempo, i vostri giorni, le vostre ore. Tutto conta. Alla fine della tua vita ti verrà chiesto quanto hai amato e non quanto hai guadagnato, o quanti titoli hai avuto o quanto sei famoso e neanche se sei bello o bella, o le macchine che hai potuto guidare o i viaggi che sei riuscito a fare. Per carità sono tutte cose belle nella loro giusta misura, ma soprattutto sono tutte cose che non valgono niente se nella tua vita non c’è amore. Senza l’amore non vai da nessuna parte a cominciare dall’amore per te stesso… e dal cogliere tutto l’amore che ti circonda che c’è, è vero, e sta lì come una sorgente di vita nuova.

Sai, e con questo chiudo, a volte passiamo un’intera esistenza pensando a tutto ciò che saremmo stati in grado di fare se fossimo stati diversi, se avessimo avuto questa o quella qualità o se la nostra famiglia ci avesse dato possibilità diverse da tutte quelle che in realtà avete. E questo non è vero, non è la verità perché non serve ad altro che tenerti li fermo nei tuoi pensieri senza fare passi in avanti. Da un punto di vista, diciamo cattolico, mi piace sempre pensare che se Dio ti ha fatto così, e se ha permesso che nella tua vita, per via della libertà tua e di quanti ti circondano, tu abbia vissuto determinate esperienze, vuoi dire che a Lui, ai suoi occhi, tu sei prezioso così, tu vai veramente bene così. Il che non vuol dire accontentarsi e non migliorarsi, ma vuol dire non vivere con l’angoscia e il senso di inadeguatezza che tante volte ti soffoca. Se Dio ti voleva diverso, allora fidati che ti avrebbe fatto diverso. Invece no, ha bisogno di te tale quale sei ora. Ma non solo lui, tutti coloro che ti amano hanno bisogno che tu sia per loro non la caricatura delle aspettative di chi sa chi, ma che tu sia te stesso perché senza di te non si può fare, senza di te questa vita, questa storia che è la nostra umanità perde un protagonista.

Ricorda sempre che ci sono persone che solo tu puoi amare. Ci sono cose che solamente tu potrai fare. Parole che solamente tu potrai pronunciare. Sentimenti che solo tu potrai provare. Sguardi che solo tu potrai incrociare. Abbracci che solo tu potrai dare. Senza di te non si può fare, non permetterti di non essere te stesso, di non fare uno sforzo reale per conoscerti, e di non guardarti con gli occhi dell’amore, quell’amore che tutto perdona, che tutto lo sostiene, perché è veramente eterno e incondizionato.

Alla fine della lettera ognuno dei ragazzi prende carta, penna e una busta delle lettere e inizia a scrivere una lettera a se stesso. La lettera a se stessi, come vi abbiamo raccontato altre volte, è un esercizio che fanno i ragazzi con l’obiettivo di ricordare al loro “io” del futuro qualcosa di questa esperienza che non vorranno dimenticare: qualche insegnamento, qualche consapevolezza su di sé, un qualcosa che un giorno vorranno ricordare. Di solito consegnamo questa lettera a chi ritorna l’anno successivo, o quando i ragazzi ne sentono il desiderio, per esempio in tanti casi (anche di persone che non sono tornate in missione) la lettera è stata consegnata a distanza di anni, il che può essere una bella sorpresa. Dopo un’ora e mezza di scrittura, che dimostra quanto i ragazzi ci tengano, e dopo aver consegnato tutte le lettere in una busta chiusa, iniziamo la messa finale. Il brano del Vangelo è quello del seminatore e dei diversi terreni su cui attecchisce il seme: dal mio punto di vista è un brano provvidenziale perché è il modo perfetto di chiudere l’esperienza e di farsi la domanda: “Che tipo di terreno sono stato o stata in questa esperienza?” e non bisogna avere paura nel dirsi che a volte siamo un terreno fatto di pietre, a volte arido, e altre volte un terreno che accoglie. Tutti possiamo essere tutti i terreni a seconda del momento della vita nel quale ci troviamo. Così il seme, che può essere considerato questa esperienza, può arrivare a fiorire più o meno in modo immediato, a volte con più tempo, ma sicuramente sarà un seme che rimarrà nella vita dei ragazzi.

Finita la messa mangiamo e quando arriva il momento di ritornare al proprio alloggio , alcuni ragazzi che avevamo deciso di rimanere, decidono di tornare al loro alloggio e dormire qualche ora in più vista la stanchezza e l’accumulo di fatica della giornata. Il resto dei ragazzi si trattiene a chiacchierare e a fare le ultime valigie.

Come detto precedentemente partiremo alle 4:00 del mattino. Questo racconto a fine della giornata conclude il nostro diario.