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September 25, 2025

Tre missioni, un agosto che ha lasciato il segno e che ha fatto vivere la realtà fino in fondo

Marta Scotti

Agosto per Wecare non è stato un mese qualunque: è stato il tempo di tre missioni, tre viaggi intensi e diversi, che hanno portato i nostri volontari in Ruanda, in Argentina e per la prima volta in Camerun. Tre esperienze che hanno lasciato tracce concrete nei luoghi che abbiamo incontrato, ma soprattutto dentro le persone che hanno scelto di partire. Comunità povere nei mezzi ma ricche nell’accoglienza ci hanno aperto le porte, regalando a ciascuno di noi lezioni preziose di umanità.

Kibaya è un villaggio che conosciamo bene: terra rossa sotto i piedi, natura rigogliosa tutt’intorno e centinaia di bambini che ogni giorno affollano la scuola. Qui i nostri volontari hanno costruito una nuova aula scolastica, dipinto pareti con immagini pedagogiche e animato giornate di giochi e attività. Hanno anche servito i pasti alla mensa, che per molti bambini rappresenta non solo un luogo di apprendimento, ma l’unico pasto sicuro della giornata. Il Ruanda affascina per la sua bellezza, ma dietro i paesaggi si nasconde la dura realtà delle famiglie: la scuola è spesso scelta più per sfamare che per educare. Una verità cruda: molte famiglie mandano i figli a scuola non tanto per imparare, quanto per garantirgli da mangiare. Eppure, in quelle stesse aule può nascere qualcosa di più profondo: la consapevolezza che lo studio è un’occasione di libertà, un varco verso un futuro diverso. Ogni aula costruita diventa allora per noi una speranza e un simbolo: non solo una solida costruzione e un tetto sicuro sopra la testa, ma un invito a credere che la conoscenza possa davvero trasformare le vite.

Per il secondo anno consecutivo siamo tornati in Argentina, a Tucumán. Qui, 53 volontari hanno lavorato fianco a fianco per costruire venti abitazioni prefabbricate per famiglie che prima vivevano in condizioni di estrema precarietà. Costruire una casa è un gesto concreto e possiamo dire anche semplice, ma, come ormai abbiamo sperimentato bene, il suo significato va molto oltre: è restituire dignità a chi da troppo tempo vive in situazioni di ’incertezza. Una volontaria racconta: «L’impatto con la baraccopoli è stato travolgente. Le famiglie, pur nella loro povertà, hanno dimostrato una generosità incredibile. Persone che non conoscevo mi hanno abbracciata, ringraziata, accolta. Per una persona timida e riservata come me, non c'è nulla di più toccante che sentirsi amata indipendentemente da chi sei, cosa fai e da quello che dici. Sentirsi amata senza condizioni è stato un dono enorme.» Ogni giorno i volontari hanno condiviso pasti con le famiglie, ascoltato le loro storie, accolto confidenze, momenti di convivialità e persino lacrime.  È stato in quei momenti, più che nel “cantiere”, che hanno compreso quanto profondo fosse il significato del loro lavoro: una casa non è solo quattro pareti, è un luogo dove i bambini possono crescere protetti, dove i genitori possono ritrovare la forza di guardare avanti, dove la vita smette di essere soltanto sopravvivenza e torna a farsi promessa, terreno fertile per la speranza. Perché ancor più che le pareti e un tetto, a tenere in piedi una famiglia sono delle fondamenta invisibili: la fiducia, la dignità, l’amore.

Quest’anno Wecare ha aperto una nuova strada: per la prima volta siamo partiti per il Camerun. Ad Assamba Assi, 40 volontari con almeno due missioni alle spalle hanno costruito un’aula informatica per oltre cento bambini. È stata una missione resa possibile anche grazie al dormitorio già realizzato in precedenza con la collaborazione di Lemanik: uno spazio che oggi permette a tanti ragazzi di rimanere vicino alla scuola e frequentarla senza dover percorrere chilometri ogni giorno. È stata una missione diversa, forse la più dura e al tempo stesso la più autentica. Le condizioni della missione erano difficili: niente acqua corrente, niente elettricità, ci si lavava con dei secchi d'’acqua e la sera il buio avvolgeva tutto.  Eppure proprio questa essenzialità ha permesso ai volontari di vivere la comunità nel modo più autentico: cucinando insieme, giocando con i bambini, cantando attorno al fuoco, affrontando le fatiche come una grande famiglia. In quei dieci giorni hanno scoperto che la mancanza di comodità non toglie nulla, anzi: libera lo sguardo e avvicina le persone. E soprattutto permette di riscoprire la gioia di tornare bambini, di vivere senza filtri, di sentirsi parte di una famiglia allargata.

C’è un filo che lega tutte le missioni: i ragazzi vivono tutta l'esperienza senza telefono. In un mondo abituato allo scroll veloce, dove basta un gesto del dito per saltare un contenuto che non interessa, in cui tutto sembra ridotto a clip da 30 secondi, vivere giorni senza schermi significa riscoprire la profondità delle relazioni. Le relazioni infatti chiedono tempo, ascolto, pazienza. La vita non si può “scrollare”: le parole degli altri rimangono, le difficoltà chiedono di essere affrontate, i rapporti hanno bisogno di tempo. Un’amicizia, un dialogo, persino un litigio necessitano di spazi lunghi per crescere. È restando nella complessità che si cresce davvero.

Le missioni all’estero sono questo: un invito a tornare presenti, a costruire dialoghi veri, a restare nella realtà, con pazienza, ascolto, presenza. Perché è lì, in quei giorni senza telefono ma pieni di incontri, che i ragazzi scoprono la forza dell’amicizia e la bellezza di sentirsi parte di qualcosa di più grande.