Trovare la vera pace nel dono di sè stessi
I nostri ultimi quattro giorni di missione sono proseguiti senza intoppi, anche se la stanchezza inizia a farsi sentire sempre di più. Abbiamo avuto una giornata di riposo, che si è rivelata più un’avventura che un vero momento di relax, mettendo alla prova le nostre ore di sonno con una partenza alle 5 del mattino! Ma andiamo con ordine.
Sul fronte del lavoro, è sorprendente vedere come, lavorando con costanza, anche se a volte a un ritmo più lento a causa del caldo, ogni progetto prenda forma giorno dopo giorno. La struttura della cucina ha già raggiunto l'altezza necessaria per poter essere chiusa, permettendo così di iniziare il delicato lavoro del tetto. Questa fase sarà affidata agli operai, sia per questioni di sicurezza che per le loro competenze specifiche.
Crediamo che i ragazzi abbiano già dimostrato ampiamente la loro forza e abilità nel portare avanti i lavori, costruendo i vari muri interni ed esterni con una precisione quasi perfetta. Paradossalmente, la parte più faticosa del progetto della cucina è stata un'attività secondaria, ma strettamente legata ad essa. Per raggiungere altezze sempre maggiori, parliamo di muri di oltre tre metri necessari per garantire una buona ventilazione, abbiamo avuto bisogno di impalcature. Qui, dove ci troviamo, non è possibile affittare o prendere in prestito impalcature da una ditta locale: bisogna costruirsele da soli. Questo ha significato che i ragazzi hanno dovuto dedicare due mattine a scalare una delle colline più alte nei dintorni per raccogliere diversi alberi, noti per la loro eccezionale flessibilità e robustezza. Caratteristiche che, tra l’altro, sono preziosissime anche in una persona!
Il campo da pallacanestro procede, anche se da un paio di giorni ci siamo resi conto che non riusciremo a completarlo entro i tempi previsti. In questi progetti, generalmente facciamo sì che gli operai locali inizino una prima fase, così da poter concludere il lavoro con i ragazzi e celebrare insieme l’inaugurazione. Tuttavia, abbiamo sottovalutato l’entità del compito, in particolare il metodo di costruzione dei campi qui, che è diverso da quello a cui eravamo abituati in Perù ed Ecuador, dove utilizzavamo meno terra e rocce. Qui, invece, dopo aver spianato il terreno, abbiamo dovuto disporre uno strato di rocce su tutta la superficie, che poi abbiamo dovuto frantumare e livellare il più possibile. E questo ha reso il lavoro non soltanto più faticoso ma molto più lento! Inoltre, il fatto di dover ricoprire tutto con il cemento, lavorando interamente a mano, rende il compito quasi una missione impossibile. Tuttavia, tutto questo è una lezione preziosa, sia per noi, che stiamo costruendo un campo sportivo in Africa per la prima volta, sia per i ragazzi, che stanno imparando sulla propria pelle che le cose solide richiedono grande fatica e molta pazienza, e che i risultati immediati spesso non durano a lungo. Non va poi sottovalutato il caldo, che in questi giorni ha fortemente influenzato il ritmo del lavoro.
Le attività con i bambini e la gestione della mensa procedono molto bene. Anche qui il caldo si fa sentire, tanto che a volte non è chiaro cosa sia più faticoso: lavorare in cantiere o giocare con i bambini. Tuttavia, c’è una cosa certa: stare con i bambini ti ricarica costantemente di energia. Forse perché l’impatto delle tue azioni è immediatamente percepibile, e la presenza di tanti bambini ti costringe a non abbassare mai la guardia.
Per quanto riguarda la mensa, ogni giorno continua a essere un momento estremamente commovente. Vedere questo immenso spazio riempirsi in pochi minuti di centinaia di bambini affamati è un'esperienza davvero toccante. Per molti di loro, come abbiamo già condiviso in altri momenti o in qualche post su Instagram, questo è l'unico pasto della giornata. Servire i piatti, passando di tavolo in tavolo, cercando di calmare chi già chiede il bis mentre non abbiamo ancora servito nemmeno la metà dei nostri commensali, è qualcosa che colpisce profondamente il cuore, a volte fino a spezzarlo.
Le riflessioni hanno continuato a svilupparsi su diversi fronti. Lunedì scorso, i ragazzi hanno approfondito la terza riflessione personale, incentrata sull'esperienza della sofferenza. Più che sul dolore in sé, la riflessione si è focalizzata sulla consapevolezza che il dolore è una parte inevitabile della vita, ma non deve avere l'ultima parola sulla nostra esistenza e su chi siamo. Spesso, però, le sofferenze tendono a diventare totalizzanti, influenzando la nostra visione della vita e facendoci percepire tutto attraverso il filtro del dolore. Tuttavia, per quanto profonde possano essere, esse segnano solo una parte della nostra esistenza. Sta a noi, con il sostegno di chi ci ama, decidere come affrontarle e cosa farne.
Martedì, invece, i ragazzi hanno partecipato a una conferenza sul dolore e la fragilità. Durante essa, abbiamo messo in evidenza come, nonostante tutti noi abbiamo un cuore che brama e che ha sete di infinito, bellezza, bontà e verità, e troviamo la vera pace nel dono di noi stessi, spesso questa consapevolezza si scontra con una libertà che opta per il male o per ciò che non soddisfa veramente il nostro desiderio profondo. Dopo aver esaminato numeri inquietanti riguardanti il male nel mondo – come il numero di persone che si tolgono la vita, persone che sono malnutrite, o che sono morte di fame, bambini in mano al traffico di persone, ecc. – abbiamo discusso dei mali che affliggono le nostre vite quotidiane, come egoismo, invidia, avarizia, le malelingue, le crisi familiari e i disturbi di ogni tipo che colpiscono sempre i più giovani.
Questo ci ricorda che il male nel mondo non è limitato a situazioni lontane dalle nostre vite e che, soprattutto, non possiamo fare paragoni tra diverse forme di sofferenza. Ogni sofferenza umana merita attenzione e cura; non ci sono sofferenze di serie A o di serie B. Nella vita, tutti prima o poi ci confrontiamo con il dolore e la sofferenza. La differenza spesso sta non tanto nella sofferenza stessa, quanto nel modo in cui la viviamo: se siamo soli o meno, e se riusciamo a trasformare il dolore in amore anziché lasciarci sopraffare dalla disperazione o dalla rabbia.
La sofferenza è sempre una possibilità che ci mette a nudo, riducendoci all’essenziale e offrendoci l’opportunità di una crescita interiore che spesso non avviene quando tutto procede bene, quando niente ci mette alla prova o in crisi. È importante ricordare che le ferite lasciate dalla vita possono portare alla ricerca di accettazione o al mendicare affetto e riconoscimento che riteniamo di aver perso a causa del dolore. Spesso, ciò che ci ha ferito in passato si traduce, nel presente, in una mancanza di fiducia, stima e amore proprio. A volte crediamo erroneamente che il successo, l’avere tante cose o cose molto sofisticate, o il potere stesso, possano farci guarire, ma purtroppo non è così.
Ieri, giovedì, i ragazzi hanno partecipato alla quarta riflessione personale, che si inserisce anch'essa nel tema della sofferenza, ma esplora più concretamente come questa possa essere radicata in una paura fondamentale nel cuore delle persone: la paura di restare soli o di non essere amati, di non sentirsi amabili. In fondo, siamo tutti alla ricerca di uno sguardo che ci salvi e ci aiuti a guarire, come descritto in uno dei testi che i ragazzi possono approfondire:
“Quegli occhi che fra milioni si posano su di noi e solo su di noi, come a dirci “scelgo di guardare te, tra tutti”, ci tirano fuori dall’anonimato, dalla terra degli sbagliati e degli invisibili, aggiungendo la dimensione della profondità alla nostra vita, perché ci raggiungono dove originiamo. Quello sguardo ci perdona di essere come siamo, ci permette di abbassare le difese per lasciarci amare, ci rivela che andiamo bene così, con le nostre insufficienze e fragilità. E la prima cosa che racconteremo a quegli occhi a tu per tu non sarà certo quanto siamo bravi e belli, i nostri risultati, ma proprio quanto siamo piccoli e fragili, perché finalmente abbiamo trovato qualcuno capace di guardare la nostra nudità senza farci sentire nudi, bensì vestiti proprio di noi stessi. Quello sguardo ci aiuta a indossare la vita, la nostra vita, come il più bello degli abiti, a superarci e a raggiungere la nostra altezza e bellezza, come lo sguardo del giardiniere permette al seme di rosa di diventare fiore. Chi lo trova, scopre cosa sono la misericordia, il perdono, la maturazione. Il bambino si riconosce negli occhi della madre e del padre, l’amata negli occhi dell’amato e viceversa. Senza questi occhi non si può crescere sin dalle radici, non si può essere sin dal sottosuolo freddo e sporco. E non si può essere poi stelo, foglie, fiore, frutto. Per questo l’amore è vera e propria esperienza di salvezza: “Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né d’altre cose simili. Ma ho bisogno d’amore”.”
E poi c’è stata la giornata di “riposo”, che in realtà è stata molto attiva. Mercoledì, partiti alle 5 del mattino, siamo andati al Parco Akagera, dove abbiamo visto praticamente tutti gli animali di cui ci avevano parlato, anche a distanza ravvicinata, tranne i leoni, che in questa stagione si rifugiano in aree più remote. Abbiamo osservato elefanti, giraffe, zebre, ippopotami, rinoceronti, alcune specie di scimmie e vari tipi di antilopi, di cui non ricordo il nome. Abbiamo visto elefanti, bufali e giraffe a pochi metri di distanza, dato che ci hanno attraversato la strada. Faceva un po’ ridere come tutti gli altri visitatori del parco fossero arrivati con le classiche jeep da safari, mentre noi eravamo con i nostri quattro pulmini! Se vi state chiedendo che fine abbia fatto la Toyota verde safari, beh, ci ha lasciato durante la salita del parco nazionale: radiatore rotto. Ci hanno fornito un'altra Toyota, molto più nuova; speriamo che questa non necessiti di interventi meccanici per accendersi, come è stato per la vecchia Land Cruiser.
La giornata di oggi invece ve la racconteremo con il prossimo post, l’ultimo del viaggio, il post degli ultimi 3 giorni!