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June 15, 2025

Un campo da costruire e le "stanze" del cuore: un primo giorno tra fatica fisica e introspezione

Fernando Lozada

La sveglia delle 6:45, come previsto, trova già molti dei ragazzi svegli: il jet lag si fa sentire puntuale in questa prima giornata di lavoro, e probabilmente ci accompagnerà ancora per un paio di giorni. Nonostante abbiano mezz’ora per prepararsi, diversi arrivano comunque in ritardo, cioè dopo le 7:15. È il primo giorno e speriamo che nessuno sia rimasto intrappolato sotto le coperte, ci potrebbe stare, visto che le mattine qui sono fredde, grigie, nuvolose e incredibilmente umide.

Facciamo l’appello in cappella, dove ogni mattina inizieremo con una breve preghiera. Al primo conteggio, il nostro staff maschile segnala che mancano due ragazzi. Partono subito a cercarli stanza per stanza, ma non c’è traccia di nessuno. È il primo giorno, dobbiamo carburare.. noi, ma anche lo staff, che in fondo è composto da ragazzi. Dopo cinque minuti di indecisione, decido di intervenire. La prima cosa che salta fuori è che in realtà non mancano due persone, ma una sola: l’altro arriverà domenica. Resta comunque il mistero. Faccio io stesso il conteggio… e alla fine scopriamo che non mancava nessuno. I nostri ragazzi dello staff avevano semplicemente sbagliato a contare. Per ben cinque volte!

Ho sempre pensato che il jet lag non sia solo un disturbo del sonno, ma anche… della fame! Anche se abbiamo cenato ieri sera, sembra quasi di essere arrivati all’ora di pranzo senza aver fatto colazione: la fame è tanta. Questo spiega perché, finita la preghiera del mattino, tutti si fiondano al refettorio per mangiare qualcosa. E, devo dire, che questo mi fa molto piacere: serviranno tutte le energie possibili per affrontare questa prima giornata di lavoro.

Prima di partire, ci ritroviamo in auditorio per il primo vero briefing. Non tanto per ricordare ai ragazzi cosa siamo venuti a fare qui (quello, bene o male, lo sanno già), ma per riflettere insieme sul perché lo facciamo e sul senso delle scelte organizzative che seguiremo. L’idea è quella di trattarli il più possibile da adulti: non vogliamo che facciano le cose solo perché qualcuno dice che vanno fatte così, ma perché comprendono le motivazioni che ci stanno dietro. Vogliamo che vivano un’esperienza bella, intensa, che possa restare con loro per molto, molto tempo.

Metto l’accento, soprattutto, sul senso del fare le cose insieme, come gruppo. Perché sono convinto che tutto parta da lì: da un gruppo in cui le relazioni siano sane, dove si coltivino atteggiamenti che fanno emergere il meglio di ciascuno, uno spazio in cui, anche se lontani da casa, ci si possa sentire un po’ a casa. Un luogo dove non serva né nascondersi né dimostrare nulla. Questo è, per me, il fondamento di tutto il resto: poter vivere il volontariato con dedizione piena, e iniziare anche un cammino interiore, imparando a guardarsi con benevolenza e amore, e così, passo dopo passo, a volersi davvero bene. La chiave, per quanto ambiziosa, sta proprio qui: volersi bene a vicenda. Cioè desiderare sinceramente il bene degli altri, imparare a guardarli per ciò che sono, riconoscendo la ricchezza che ciascuno ha da donare al gruppo, l’unicità che ognuno porta con sé e che può diventare nutrimento per tutti. Questo, che potrebbe sembrare scontato, in realtà è fondamentale. Perché spesso, in questa fase della vita — l’adolescenza — si fa fatica a guardarsi “con importanza”. A prendere sul serio il fatto che ciò che ognuno è chiamato a essere, e quindi a fare, non è qualcosa di marginale. Al contrario, è qualcosa di essenziale per chi gli sta accanto.

Alle 9:30 siamo già sui pullman, divisi per cantieri. Ognuno ha con sé lo zaino con l’essenziale: felpa, guanti, borraccia e un cambio di maglietta. Raggiungiamo la base del “quartiere” di Pamplona, una zona che si è sviluppata negli ultimi 50 anni. All’ingresso si vedono case in cemento, ma man mano che ci si addentra e si sale — perché Pamplona si estende su un’infinità di colline, una dopo l’altra — le abitazioni diventano sempre più umili, le strade sempre meno asfaltate, fino a trasformarsi in veri e propri sterrati. I cavi della luce non arrivano ovunque, non c’è servizio di acqua potabile. È un percorso che lascia senza parole: chilometri e chilometri quadrati dove manca quasi tutto ciò che è essenziale per una vita dignitosa. Arriviamo ai piedi dell’ultima “montagna” di Pamplona, l’ultimo punto raggiungibile con i pullman. Ed è qui che inizia la vera fatica: il campo sportivo che i ragazzi costruiranno si trova in cima, nella parte più alta. Tra dove possono parcheggiare gli autobus e il nostro cantiere ci separano circa 500 scalini ripidi, e non esagero. Inutile dire che io sono arrivato con il fiatone. I ragazzi, per fortuna, hanno performato decisamente meglio. Anzi, molto meglio.

La vista da lassù è impressionante. Ma ancora più impressionante è il fatto che stiamo lavorando proprio accanto a quello che, in passato, è stato chiamato “il muro della vergogna”: un muro che separa la nostra parte della montagna da un quartiere residenziale tra i più ricchi della zona, con ville enormi, giardini curatissimi e piscine scintillanti. Un contrasto che racconta bene una delle particolarità più forti del Perù: un Paese capace di una ricchezza straordinaria, ma dove convivono, spesso senza vie di mezzo, gli estremi.

Una volta arrivati al nostro cantiere, ci spiegano il lavoro da fare e l’obiettivo della giornata: dobbiamo realizzare 24 quadranti di cemento, che insieme andranno a formare il campo da calcio. Abbiamo sei giorni pieni davanti a noi, quindi l’idea è di farne quattro al giorno. Ognuno si mette subito all’opera: c’è chi sposta pietre, chi prepara il cemento, chi lo trasporta, chi inizia a livellare le parti del terreno ancora sconnesse… Insomma, c’è lavoro per tutti. La musica accompagna ogni movimento e rende il tutto ancora più divertente: per i ragazzi è tutto nuovo, e l’entusiasmo non manca. Alla fine della giornata, però, abbiamo completato solo tre quadranti. Questo significa che domani, domenica, dovremo spingere un po’ di più… e arrivare almeno a cinque!

Al ritorno a casa, le ragazze si sparpagliano in piccoli gruppi e iniziano a chiacchierare, condividendo pensieri e prime impressioni. I ragazzi, invece, socializzano a modo loro: tirando fuori il pallone e lanciandosi in una partita di calcio sul grande prato della casa che ci ospita. Quando li vedo cominciare, alzo gli occhi al cielo e penso: speriamo che nessuno si faccia male… ma, a quanto pare, le mie speranze non sono state ascoltate. Uno dei ragazzi si è infortunato dopo un fallo in piena azione offensiva.

Alle 18:30, ci ritroviamo tutti in auditorio per un primo momento di riflessione personale. Ai ragazzi vengono proposti due testi dello scrittore italiano Alessandro D’Avenia, seguiti da alcune domande per aiutarli ad approfondire, a partire da ciò che hanno vissuto finora nella loro “esperienza di vita”. Particolarmente significativo è il secondo testo, che parla del cuore e di come possiamo immaginarlo diviso in quattro stanze:

“Quattro cavità ne compongono lo spazio, perché quattro sono le cose che il cuore custodisce e spinge nelle arterie della vita: il dolore, la gioia, la paura, il desiderio. La prima stanza contiene quello che più ci fa soffrire, che ci ancora al passato e ci impedisce di trasformare il presente in futuro. La seconda stanza contiene ciò che più ci rende felici, il saperci amati e l'amare, l'avere un posto nel mondo e vivere la vita con slancio creativo. È la stanza del senso delle cose, quella in cui la vita è in pace, comunque vada là fuori. La terza stanza è quella del buio, quel buio che fin da bambini riempiamo di ciò che temiamo di più,è la stanza in cui non siamo e non saremo mai abbastanza, perché abbastanza è di più della perfezione. È la stanza della vergogna di esistere, del sospetto su noi stessi. La quarta stanza è quella del desiderio, in cui siamo aperti al futuro, quella che ci fa tendere in avanti e non ci fa dipendere da tutto il resto. Tendere è il contrario di dipendere. È il luogo del rischio e dell'inquietudine, senza la quale la vita raggiungerebbe presto l'equilibrio della morte.”

Ognuno dei ragazzi riceve nel proprio libretto una tabella con le quattro cavità del cuore da riempire: gioie, paure, sofferenze e desideri. Per trenta minuti, un silenzio profondo avvolge l’auditorio. I ragazzi si concentrano, prendono sul serio il compito, e li si vede immersi nei propri pensieri. È un momento che riempie d’orgoglio.

Prima di cena, partecipiamo alla messa di inaugurazione delle missioni. I ragazzi, lo ammetto, sono un po’ arrugginiti con le risposte… ma va bene così. È un bel momento di raccoglimento, semplice e autentico, e soprattutto un buon inizio per i giorni intensi che ci attendono.