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July 19, 2025

Una sete troppo grande per le cose piccole

Fernando Lozada

Dopo la nostra consueta routine mattutina, ci ritroviamo tutti in auditorio. Oggi non ci attende una conferenza da ascoltare, ma la seconda riflessione personale del viaggio, questa volta dedicata al tema di ieri: la felicità. A guidare le nostre riflessioni abbiamo scelto il Miguel Mañara, riletto dallo scrittore italiano Franco Nembrini: un testo che, con uno sguardo profondamente umano, attraversa molte delle domande e dei temi che incontreremo lungo il nostro cammino.

La storia di Don Miguel Mañara comincia in una notte che sembra perfetta: è il giorno del suo trentesimo compleanno e il palazzo dei Mañara, una delle famiglie più potenti e rispettate di Siviglia, è colmo di ospiti. Tra tavole imbandite, musica, vino e risate, tutti sono lì per lui: Miguel è l’uomo del momento – giovane, affascinante, colto, ricco, sicuro di sé, celebrato per le sue conquiste amorose. Vive nella superficialità, circondato da lussi e ammirazione. Ha tutto. Eppure, niente è “abbastanza”.  Sotto questa maschera, qualcosa inizia a scricchiolare. Nel pieno della festa, qualcosa in lui si incrina. Dietro i sorrisi, le lodi, e l’ebbrezza della notte, emerge un’inquietudine. Le parole vuote degli amici, i racconti delle sue imprese amorose, la musica di sottofondo… tutto gli appare improvvisamente stanco, inutile: “Il tempo scorre lento, signori, spaventosamente lento, e io sono inspiegabilmente stanco di questo schifo di vita.” Una domanda sembra attraversarlo in silenzio: “È tutto qui?”

“È tutto qui?” È la domanda che poniamo ai ragazzi e, in fondo, anche a noi stessi. Perché spesso trascorriamo la vita ad accumulare: non solo cose materiali, ma anche esperienze. Eppure, facciamo fatica a trovare una reale corrispondenza tra ciò che siamo, con la nostra fame e sete di infinito, e ciò con cui tentiamo di placarla. Il testo va oltre, approfondendo l’esperienza di un vuoto che può emergere anche in una vita apparentemente piena, per poi proporre ai ragazzi cinque domande per scavare dentro di sé.

Infine, per approfondire e rafforzare il tema di oggi, ai ragazzi vengono proposti tre testi, scritti da autori diversi, in epoche e condizioni di vita lontane tra loro. Eppure, Leon Bloy, Giacomo Leopardi e persino Dante condividono un’esperienza comune: quella di una mancanza fondamentale nel cuore dell’uomo. Tutti, in modi diversi, riconoscono che questo mondo — per quanto ricco e affascinante — non basta a colmare il desiderio più profondo che abita in noi.

Non smette di commuovermi vedere come, per molti ragazzi, questo esercizio di scrivere guardandosi dentro, accettando la sfida di rispondere a domande tutt’altro che semplici, domande che li mettono a confronto con sé stessi, sia vissuto non solo come qualcosa di positivo, ma addirittura desiderato. È come se non vedessero l’ora di raccontarsi, anche solo a sé stessi, mettendo in parole ciò che spesso fanno fatica persino a pronunciare. Il silenzio e la serietà con cui affrontano questo momento sono, per noi, una conquista preziosa. Non una conquista nostra, ma tutta loro.

Oggi partiamo con un piccolo ritardo: l’autobus non è stato puntualissimo, così arriviamo a El Pozo intorno alle 10:05. Ci distribuiamo velocemente sui nostri terreni e iniziamo subito a costruire le case. Il sole, oggi, è implacabile — spacca le pietre — ma rende tutto più caldo e, paradossalmente, più piacevole rispetto alla giornata di ieri. I ragazzi lavorano con entusiasmo, alternando il tempo tra scavi, fondamenta e momenti di gioco con i bambini.

Verso l’ora di pranzo, quasi tutte le fondamenta sono pronte. Alcune case si rivelano più complesse, come già ci era stato anticipato ieri: il terreno, infatti, non è sempre solido, e alcune fondamenta che ieri sembravano perfettamente livellate oggi risultano leggermente più basse. Anche un solo centimetro di differenza può creare grandi difficoltà quando si comincia a tirare su i muri. Dopo il pranzo condiviso con le famiglie — e c’è chi è così fortunato da gustare il famosissimo choripán — i ragazzi riprendono il lavoro con energia e determinazione. A fine giornata, tutte le mura di tutte le case sono in piedi, e in alcune c’è già pronto perfino lo scheletro del tetto. Devo dire che, rispetto alla tabella di marcia, i ragazzi sono stati impeccabili: oggi portano a casa un ottimo risultato.

Torniamo a casa alle 17, ma oggi non c’è tempo per le solite partite. Alle 18:30 siamo già tutti riuniti in auditorio per dividerci nei vari gruppi. I ragazzi, che sono 21, hanno formato tre gruppi: due da otto e uno da cinque. Le ragazze, invece, che sono 31, ne hanno creati quattro: uno da cinque, due da otto e uno da dieci. Ogni gruppo ha un membro dello staff come guida, con il compito di favorire il dialogo e creare un clima di fiducia in cui ciascuno possa sentirsi libero di raccontarsi. L’esperienza è sempre la stessa, ogni volta sorprendente: ci si arricchisce grazie alle storie degli altri, che nutrono e illuminano anche la propria.

Ci si racconta, ci si riconosce, ci si scopre meno soli — o meno “strani” — di quanto si pensasse. Una scoperta che, per quanto possa sembrare semplice, è tutt’altro che scontata. In molti ragazzi e ragazze la paura di essere lasciati soli, o abbandonati, è profonda ed è alla base di tante insicurezze e visioni distorte di sé stessi. Ecco perché questi momenti sono una vera medicina per il cuore: ci si sente ascoltati, e di conseguenza voluti bene. Ci si sente importanti, perché la propria storia conta per qualcuno. E qualcuno è lì, accanto a noi, ad ascoltarla.